Introduzione
La sesta Satira di Decimo Giunio Giovenale, nota anche come Satira contro le donne, è un lungo testo - il più lungo di tutta la sua produzione - di quasi settecento esametri in cui il poeta, per dissuadere l’amico Postumo dalle nozze, si scaglia contro il genere femminile, e più precisamente contro le matronae romane 1. Grazie ad alcuni indizi contenuti nel testo, è possibile datare l’opera a un periodo fra il 100 e il 127 d.C.
La satira prende le mosse dal ricordo e dall’idealizzazione di un’antica età dell’oro in cui ancora viveva sulla Terra la Pudicitia, dea femminile preposta alla fedeltà coniugale, che rendeva le donne ancora virtuose. Con l’evoluzione del genere umano, però, tanto la Pudicitia quanto Astrea, dea della giustizia, lasciarono il mondo e da quel momento non è più esistita tra gli uomini (e soprattutto tra le donne) la fedeltà matrimoniale. Giovenale invita allora provocatoriamente l’amico a scegliere per sé una strada migliore del matrimonio: suicidarsi o, altrimenti, andare con un ragazzino (queste alternative al matrimonio sono descritte subito ai vv. 27-37). Inizia allora una serie di “bozzetti” in climax che descrivono i più svariati tipi di matrone romane che si abbandonano alla lussuria e all’adulterio: si tratta di donne nobili e famose, che tradiscono il marito con attori e gladiatori e sono capaci di seguire i loro amanti fino in capo al mondo, abbandonando casa e figli, o persino di farsi prostitute sotto falso nome pur di soddisfare la propria lussuria; tra queste si trova anche Messalina, la moglie dell’imperatore Claudio (vv. 114-132). L’infedeltà è il loro difetto maggiore, ma non l’unico: sono anche amanti del lusso, sperperano denaro, eccedono nel trucco, parlano in greco per darsi un tono. Giovenale mette quindi in allerta Postumo, e con lui tutti gli uomini che intendano sposarsi, sulle conseguenze del matrimonio (vv. 209-217): nessuna libertà sarà più concessa, né di decidere come tagliarsi la barba né di scegliere gli amici , perché tutta la vita dell’uomo sarà condizionata dai capricci della futura moglie. Seguono poi alcune descrizioni ironiche di donne che per emanciparsi scelgono di fare le atlete o le gladiatrici.
A questo punto, dal v. 286, l’autore si interroga sulle cause che hanno portato a una tale degenerazione morale e, ricordando i tempi lontani dell’epoca annibalica in cui le matrone erano ancora virtuose, istituisce un nesso tra la decadenza etica dell’età contemporanea e l’assenza della guerra e della povertà, che sono capaci di soffocare sul nascere gli eccessi di lusso e lussuria 2. Le donne moderne, invece, sono ricche e senza preoccupazioni e - anche con la scusa di partecipare ai riti segreti in onore di Bona Dea 3 - cedono agli eccessi: si ubriacano, si eccitano tra loro con spettacoli volgari e poi vanno a letto con i loro schiavi o con gli eunuchi. Inoltre, fingono di amare il canto per poi amare i cantori, si vantano di conoscere la poesia e la grammatica, si truccano con esagerazione, fanno frustare gli schiavi per capriccio, si affidano irrazionalmente a indovini e ciarlatani di ogni tipo. Tutto questo accomuna le donne nobili alle donne di condizione modesta. Tuttavia, mentre le prime accettano ancora la loro condizione di puerpere, perché comunque non potrebbero permettersi sostanze abortive o le prestazioni di una mammana, le matrone rifiutano di avere figli e praticano frequenti aborti; e in parte è un bene, dice Giovenale, perché altrimenti darebbero alla luce molti figli illegittimi. Infine, però, se le cose non vanno per il verso giusto, le donne arrivano persino a uccidere i propri figli o i propri mariti, come fecero le mitiche Medea o Clitemnestra. Osserva però infine Giovenale che mentre le eroine tragiche agivano spinte dalla follia, le matrone romane uccidono per calcolo e per denaro (vv. 643-661).
Testo e traduzione di passi significativi
Invito a Postumo a non sposarsi (vv. 27-37)
- Cèrte sanùs eràs. Uxòrem, Pòstume, dùcis?
- Dìc qua Tisìphonè 4, quibùs exàgitère colùbris.
- Fèrre potès dominàm salvìs tot rèstibus ùllam,
- cùm pateànt altaè calìgantèsque fenèstrae,
- cùm tibì vicinùm se praèbeat Aèmiliùs pons?
- Aùt, si de mùltis nùllus plàcet èxitus, ìllud
- nònne putàs meliùs, quod tè cum pùsio dòrmit,
- pùsio quì noctù non lìtigat, èxigit à te
- nùlla iacèns illìc munùscula, nèc queritùr quod
- èt laterì parcàs nec quàntum iùssit anhèles?
- Di certo un tempo eri sano di mente: e prendi moglie, Postumo?
- Di’ da quale Tisìfone, da quali serpi sei tormentato.
- Puoi sopportare una donna pur con così tante corde disponibili,
- mentre sono spalancate delle finestre alte e che danno le vertigini
- e ti si offre il ponte Emilio vicino?
- Oppure, se fra le molti tipi di morte non te ne piace nessuna,
- forse non ritieni meglio dormire con un ragazzino,
- un ragazzino che di notte non vuole litigare, che non pretende da te,
- mentre è lì sdraiato, nessun regalino e che non si lamenta perché
- o risparmi fiato o non ansimi quanto ordina lui?
Ritratto di Messalina, da imperatrice a prostituta (vv. 114-132)
Quìd privàta domùs, quid fècerit Èppia 5, cùras?
Rèspice rìvalès divorùm 6; Claùdius àudi
quaè tulerìt. Dormìre virùm cum sènserat ùxor
sùmere noctùrnos mèretrìx Augùsta cucùllos
aùsa Palàtino et tègetèm praefèrre cubìli
lìnquebàt comitè ancìlla non àmplius ùna.
Sìc, nigrùm flavò crinèm abscòndente galèro,
ìntravìt calidùm veterì centòne lupànar
èt cellàm vacuàm atque suàm; tunc nùda papìllis
pròstitit aùratis tìtulùm mentìta Lycìscae
òstendìtque tuum, gènerosè Britànnice 7, vèntrem.
Èxcepìt blandà intrantès atque aèra popòscit
còntinuèque iacèns cunctòrum absòrbuit ìctus.
Mòx, lenòne suàs iam dìmittènte puèllas,
trìstis abìt et, quòd potuìt tamen, ùltima cèllam
claùsit adhùc ardèns rigidaè tentìgine vùlvae,
èt lassàta virìs necdùm satiàta recèssit,
òbscurisquè genìs turpìs fumòque lucèrnae
foèda lupànarìs tulìt ad pùlvinàr odòrem.
Perché ti preoccupi di una casa privata, di cosa abbia fatto Eppia?
Guarda i rivali degli dei; ascolta Claudio
che cosa ha sopportato. Quando la moglie si accorgeva che il marito dormiva,
osando l’Augusta meretrice mettersi dei cappucci da notte
e preferire al talamo del Palatino una stuoia,
lo abbandonava, con non più di una ancella come compagna.
Così, mentre una parrucca bionda nasconde i capelli neri,
entra nel caldo lupanare dalle tende vecchie
e nella stanzetta vuota, tutta per lei; allora nuda con i capezzoli
dorati si prostituisce inventando il nome di Licisca
e offre, o nobile Britannico, il tuo ventre.
Accoglie generosa chi entra e chiede il prezzo
e di continuo, sdraiata, assorbe i colpi di tutti.
Poi, quando il lenone manda via le sue ragazze,
triste se ne va e, l’unica cosa che può fare, per ultima chiude
la stanza, ardendo ancora per l’eccitazione della sua vulva turgida,
e, spossata dagli uomini ma non sazia, se ne va,
con le guance scure e sporca per il fumo della lucerna
porta l’ignobile odore del lupanare nel talamo nuziale.
Fine della libertà per l’uomo (vv. 206-218)
Sì tibi sìmplicitàs uxòria, dèditus ùni
èst animùs, summìtte capùt cervìce paràta
fèrre iugùm: nullam ìnveniès quae pàrcat amànti.
Àrdeat ìpsa licèt, tormèntis gaùdet amàntis
èt spolìis; ìgitur lònge mìnus ùtilis ìlli
ùxor, quìsquis erìt bonus òptandùsque marìtus.
Nìl unquàm invìta donàbis coniùge, vèndes
hàc obstànte nihìl, nihil 8 haèc si nòlit emètur;
haèc dabit àffectùs: ille èxcludètur amìcus
iàm seniòr, cuiùs barbàm tua iànua vìdit.
Tèstandì cum sit lènonìbus àtque lanìstis 9
lìbertàs et iurìs idèm contìngat harènae,
nòn unùs tibi rìvalìs dictàbitur hères.
Se fa per te l’accondiscendenza verso la moglie e hai il cuore
per una sola donna, abbassa la testa, con il collo pronto
a sopportare il giogo: non ne troverai nessuna che risparmi chi l’ama.
Anche se anche lei è innamorata, gode dei tormenti
e delle privazioni di chi l’ama; dunque è ancora meno utile
una moglie a chiunque sia un marito perbene e desiderabile.
Non farai mai più un regalo se la moglie è in disaccordo, non venderai nulla
se lei si opporrà, nulla sarà comprato se non vuole;
questa stabilirà gli affetti: sarà escluso quell’amico
ormai anziano, di cui la tua porta ha visto la prima barba.
Mentre per lenoni e lanisti c’è libertà
di fare testamento e lo stesso diritto tocca ai gladiatori,
a te un solo erede, rivale, verrà imposto.
Confronto con le eroine del mito (vv. 643-661)
Crèdamùs tragicìs quicquìd de Còlchide tòrva 10
dìcitur èt Procnè 11; nil còntra cònor. Et ìllae
gràndia mònstra suìs audèbant tèmporibùs, sed
nòn proptèr nummòs. Minor àdmiràtio sùmmis
dèbetùr monstrìs, quotiès facit ìra nocèntem
hùnc sexùm et rabiè iecur ìncendènte ferùntur
praècipitès, ut sàxa iugìs abrùpta, quibùs mons
sùbtrahitùr clivò que latùs pendènte recèdit.
Ìllam ego nòn tulerìm quae còmputat èt scelus ìngens
sàna facìt. Spectànt subeùntem fàta marìti
Àlcestìm 12 et, simìlis sì permùtatio dètur,
mòrte virì cupiànt animàm servàre catèllae.
Òccurrènt multaè tibi Bèlides 13 àtque
Eriphỳlae 14
mìlle, Clỳtaemestràm 15 nullùs non vìcus habèbit.
Hòc tantùm refèrt, quod Tỳndaris ìlla bipènnem
ìnsulsàm et fatuàm dextrà laevàque tenèbat;
àt nunc rès agitùr tenuì pulmòne rubètae 16,
sèd tamen èt ferrò, si praègustàrit Atrìdes 17
Pòntica tèr victì cautùs medicàmina 18 règis.
Crediamo ai tragici qualsiasi cosa venga detta sulla torva donna
della Colchide o su Procne; non ho nulla in contrario. Anche quelle
osarono grandi nefandezze ai loro tempi, ma non
per soldi. Uno stupore minore è dovuto alle grandi
nefandezze ogni volta che l’ira rende colpevole
questo sesso e che, quando la rabbia infiamma il fegato, diventano
pericolose, come sassi gettati dalle cime, ai quali è tolto
il monte e la fiancata cede per il ripido pendio:
io non potrei sopportare una donna che fa calcoli e commette
un grande crimine a mente sana. Guardano Alcesti che subentra
al destino del marito e, se fosse concesso un simile scambio,
desidererebbero salvare la vita di una cagnolina con la morte del marito.
Per te arriveranno molte Belidi ed Erifili
al mattino, nessun vicolo sarà libero da Clitemnestra.
Soltanto questo fa la differenza, che quella Tindaride teneva
l’ascia stolta e folle con la destra e la sinistra,
mentre ora il misfatto è compiuto con un piccolo polmone di rospo,
ma anche con un’arma, se l’Atride cauto ha preso in anticipo
l’antidoto del re del Ponto, tre volte vinto.
1 L’attacco di Giovenale non riguarda infatti tutte le donne, ma solo quelle sposate, che, proprio per il loro status di mogli, avrebbero l’obbligo della fedeltà sessuale, mentre tutte le altre - schiave, prostitute, liberte - a Roma potevano invece esercitare una certa libertà sessuale, senza andare né contro la legge né contro la morale. Detto questo, il fatto che Giovenale circoscriva il suo attacco alle matrone non significa affatto che la sua misoginia non coinvolga in realtà l’intero genere femminile, anzi: secondo Giovenale tutte le donne sono per natura infedeli e solo le matrone romane, per un certo periodo, erano riuscite a frenare la loro infedeltà grazie all’istituto del matrimonio; alla sua epoca, però, il matrimonio era entrato in crisi proprio per colpa delle matrone, alle quali sono quindi rivolte i suoi attacchi più duri.
2 Si tratta del noto tema del cosiddetto metus hostilis (ovvero “la paura del nemico”), teorizzato per esempio anche da Sallustio nell’archeologia del De Catiliane coniuratione.
3 I riti di Bona Dea, una divinità latina dietro cui è identificabile il mito della Grande Madre, si celebravano in un bosco sacro presso il colle Aventino nel mese di dicembre. Gli uomini ne erano tassativamente esclusi.
4 Tisiphone: Tisifone era una delle Erinni della mitologia antica, nota per aver ucciso l’amante Citerone, facendolo mordere da uno dei serpenti di cui era fatta la propria capigliatura.
5 Eppia: Eppia è la moglie di un senatore, di cui si parlava nei versi precedenti.
6 rivales divorum: ad essere definiti così sono gli imperatori.
7 Britannice: Britannico è il figlio di Messalina e Claudio; il ventre è definito “tuum” a significare “che ti ha generato”.
8 L’insistente anafora di nihil vuole sottolineare che all’uomo sposato non rimane più nessuna libertà.
9 lanistis: i lanistae erano gli addestratori dei gladiatori.
10 de Colchide torva: la donna della Colchide è Medea, celebre protagonista dell’omonima tragedia di Euripide, che ha ucciso i propri figli per vendicarsi del marito traditore.
11 Anche Procne, eroina del mito, ha ucciso il proprio figlio per punire il marito Tereo.
12 Alcesti, personaggio dell’omonima tragedia euripidea, aveva accettato di morire al posto del marito.
13 Belides: Le Belidi, o Danaidi, avevano ucciso i loro mariti per evitare che si avverasse un oracolo secondo il quale il loro padre sarebbe stato ucciso da un genero.
14 Eriphylae: Erifile indicò il nascondiglio del marito Anfiarao che non voleva andare in guerra: da lì venne prelevato e trovò la morte in battaglia.
15 Clytaemestram: Clitemnestra è la moglie di Agamennone, che al ritorno del marito da Troia lo uccise per poter continuare la sua relazione con Egisto. Più avanti è chiamata Tindaride, in
quanto figlia di Tindaro.
16 tenui pulmone rubetae: dal polmone del rospo si ricavava un veleno letale, che le donne potevano usare per uccidere i mariti.
17 L’Atride è Agamennone, che qui è usato in senso metonimico ad indicare tutti i mariti infelici.
18 Pontica [...] medicamina: il riferimento è a Mitridate VI del Ponto (132-63 a.C.), nemico dei Romani per circa trent’anni nelle tre guerre mitridatiche. Si dice che Mitridate, temendo di venire avvelenato, assumesse costantemente dosi di veleno, garantendosi così l’immunità.