Con il tredicesimo canto dell’Inferno, entriamo in una fittissima boscaglia, collocata nel secondo girone del settimo cerchio della cavità infernale; è il luogo ove scontano la propria pena i suicidi, tra cui spicca la figura di Pier delle Vigne, che ricorda maliconicamente la sua triste ed infelice esperienza alla corte di Federico II di Svevia.
- Non era ancor di là 1 Nesso 2 arrivato,
- quando noi ci mettemmo per un bosco
- che da neun sentiero era segnato.
- Non fronda verde, ma di color fosco;
- non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
- non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.
- Non han sì aspri sterpi né sì folti
- quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
- tra Cecina e Corneto 3 i luoghi cólti.
- Quivi le brutte Arpie 4 lor nidi fanno,
- che cacciar de le Strofade 5 i Troiani
- con tristo annunzio di futuro danno 6.
- Ali hanno late, e colli e visi umani,
- piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
- fanno lamenti in su li alberi strani 7.
- E 'l buon maestro «Prima che più entre,
- sappi che se' nel secondo girone 8»,
- mi cominciò a dire, «e sarai mentre
- che tu verrai ne l'orribil sabbione 9.
- Però riguarda ben; sì vederai 10
- cose che torrien fede al mio sermone».
- Io sentia d'ogne parte trarre guai
- e non vedea persona che 'l facesse;
- per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
- Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse 11
- che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
- da gente che per 12 noi si nascondesse.
- Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
- qualche fraschetta d'una d'este piante,
- li pensier c'hai si faran tutti monchi 13».
- Allor porsi la mano un poco avante
- e colsi un ramicel da un gran pruno 14;
- e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
- Da che fatto fu poi di sangue bruno,
- ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
- non hai tu spirto di pietade alcuno?
- Uomini fummo, e or siam fatti sterpi 15:
- ben dovrebb' esser la tua man più pia,
- se state fossimo anime di serpi 16».
- Come d'un stizzo verde ch'arso sia
- da l'un de' capi, che da l'altro geme 17
- e cigola 18 per vento che va via,
- sì de la scheggia rotta usciva insieme
- parole e sangue; ond' io lasciai la cima
- cadere, e stetti come l'uom che teme.
- «S'elli avesse potuto creder prima»,
- rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
- ciò c'ha veduto pur con la mia rima 19,
- non averebbe in te la man distesa;
- ma la cosa incredibile 20 mi fece
- indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
- Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
- d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
- nel mondo sù, dove tornar li lece 21».
- E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
- ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
- perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi 22.
- Io son 23 colui che tenni ambo le chiavi 24
- del cor di Federigo 25, e che le volsi,
- serrando e diserrando, sì soavi,
- che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
- fede portai al glorïoso offizio,
- tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
- La meretrice 26 che mai da l'ospizio
- di Cesare non torse li occhi putti,
- morte comune e de le corti vizio,
- infiammò contra me li animi tutti;
- e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
- che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
- L'animo mio, per disdegnoso gusto,
- credendo col morir fuggir disdegno,
- ingiusto fece me contra me giusto 27.
- Per le nove 28 radici d'esto legno
- vi giuro che già mai non ruppi fede
- al mio segnor, che fu d'onor sì degno.
- E se di voi alcun nel mondo riede 29,
- conforti la memoria mia, che giace
- ancor del colpo che 'nvidia le diede».
- Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
- disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
- ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
- Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora
- di quel che credi ch'a me satisfaccia;
- ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora 30».
- Perciò ricominciò: «Se l'om 31 ti faccia
- liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
- spirito incarcerato, ancor ti piaccia
- di dirne come l'anima si lega
- in questi nocchi 32; e dinne, se tu puoi,
- s'alcuna mai di tai membra si spiega 33».
- Allor soffiò il tronco forte 34, e poi
- si convertì quel vento in cotal voce:
- «Brievemente sarà risposto a voi.
- Quando si parte l'anima feroce 35
- dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta,
- Minòs 36 la manda a la settima foce.
- Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
- ma là dove fortuna la balestra 37,
- quivi germoglia come gran di spelta 38.
- Surge in vermena e in pianta silvestra:
- l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
- fanno dolore, e al dolor fenestra 39.
- Come l'altre verrem per nostre spoglie,
- ma non però ch'alcuna sen rivesta,
- ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie 40.
- Qui le strascineremo 41, e per la mesta
- selva saranno i nostri corpi appesi,
- ciascuno al prun de l'ombra sua molesta 42».
- Noi eravamo ancora al tronco attesi,
- credendo ch'altro ne volesse dire,
- quando noi fummo d'un romor sorpresi 43,
- similemente a colui che venire
- sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
- ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
- Ed ecco due da la sinistra costa,
- nudi 44 e graffiati, fuggendo sì forte,
- che de la selva rompieno ogne rosta.
- Quel dinanzi 45: «Or accorri, accorri, morte 46!».
- E l'altro 47, cui pareva tardar troppo,
- gridava: «Lano, sì non furo accorte
- le gambe tue a le giostre 48 dal Toppo!».
- E poi che forse li fallia la lena,
- di sé e d'un cespuglio fece un groppo.
- Di rietro a loro era la selva piena
- di nere cagne, bramose e correnti
- come veltri ch'uscisser di catena.
- In quel che s'appiattò 49 miser li denti,
- e quel dilaceraro a brano a brano;
- poi sen portar quelle membra dolenti.
- Presemi allor la mia scorta per mano,
- e menommi al cespuglio che piangea
- per le rotture sanguinenti in vano.
- «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
- che t'è giovato di me fare schermo?
- che colpa ho io de la tua vita rea?».
- Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo,
- disse: «Chi fosti, che per tante punte
- soffi con sangue doloroso sermo?».
- Ed elli 50 a noi: «O anime che giunte
- siete a veder lo strazio disonesto
- c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,
- raccoglietele al piè del tristo cesto.
- I' fui de la città che nel Batista
- mutò 'l primo padrone 51; ond' ei 52 per questo
- sempre con l'arte sua 53 la farà trista;
- e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
- rimane ancor di lui alcuna vista,
- que' cittadin che poi la rifondarno
- sovra 'l cener che d'Attila rimase,
- avrebber fatto lavorare indarno 54.
- Io fei gibetto 55 a me de le mie case».
- Nesso non aveva ancora raggiunto la riva del Flegetonte,
- quando Virgilio ed io entrammo
- in un bosco che non aveva strade.
- [le piante] non [avevano] fronde verdi, ma scure,
- i rami non erano diritti, ma bitorzoluti e ritorti;
- non c'erano frutti, ma spine avvelenate.
- Non hanno [per loro dimora] rami secchi così ispidi,
- tantomeno così fitti, quegli animali selvaggi
- che tra Cecina e Corneto fuggono i luoghi coltivati.
- Qui le luride Arpie, le quali furono cacciate dai compagni
- di Enea dalle Strofadi dopo una cupa profezia
- di sventure future, costruiscono i loro rifugi.
- Hanno ali larghe, collo e volto umano,
- artigli ai piedi e piume sul grande ventre;
- modulano [i loro] versi dagli alberi insoliti.
- E Virgilio «Prima di entrare, devi sapere
- che ti trovi nel secondo girone»,
- cominciò a dir[mi], «e ci rimarrai finché
- arriverai ad una spaventosa distesa di sabbia.
- Perciò osserva bene; così vedrai cose che a parlarne
- soltanto non sarebbero credute».
- Io sentivo gemere in ogni direzione
- ma non vedevo [alcuna] persona che lo facesse;
- per cui mi fermai [del] tutto confuso.
- Credo che Virgilio abbia creduto che io credessi
- che tutti quei gemiti uscissero, tra quegli sterpi,
- da persone che si nascondevano da noi.
- Perciò Virgilio disse: «Se tu spezzerai
- qualche ramo di una di queste piante,
- l'idea che [ora] ti sei fatto si troncherà completamente».
- [E] allora allungai la [mia] mano
- e raccolsi un ramoscello da un grande arbusto;
- e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?».
- Dopo che si coprì di sangue scuro,
- continuò a dire: «Perché mi spezzi?
- Non hai nessuna pietà?
- [Noi] siamo stati uomini, e adesso siamo arbusti:
- la tua mano avrebbe dovuto essere più pietosa,
- [anche] se [noi] fossimo stati spiriti di serpenti».
- Come [accade per] un tronco acerbo
- che viene bruciato su uno dei lati, mentre l'altro [lato]
- gocciola e stride per il vapore che [vi] esce,
- così dal ramo spezzato fuoriuscivano
- allo stesso tempo parole e sangue;§
- per cui feci cadere il ramo, e [ne] rimasi spaventato.
- «Se tu avessi potuto credere prima»,
- rispose Virgilio, «[o] anima offesa,
- a ciò che hai [potuto] vedere anche nei miei versi,
- [egli] non avrebbe disteso la mano su di te;
- ma il prodigio fece sì che lo inducessi
- ad un'azione che anche a me dispiace.
- Ma racconta a Dante chi sei stato [in vita],
- così che per scusarsi del danno procurato
- rinnovi la tua fama nel mondo [dei vivi]».
- E la pianta [rispose]: «mi alletti a tal punto
- con parole gentili che io non posso restare in silenzio;
- e a voi non dispiaccia se mi trattengo un po' a conversare.
- Io sono colui che ebbe [in custodia] entrambe le chiavi
- del cuore di Federico, e che le fece girare,
- aprendo e chiudendo, così dolcemente,
- che allontanai quasi tutti dalla confidenza privata con lui;
- e tenni fede al [mio] compito onorevole,
- a tal punto che perdetti [prima] la pace e [poi] la vita.
- La prostituta che mai dalla corte imperiale
- distolse i [suoi] disonesti occhi, [che è] rovina
- di tutti [gli uomini] ed [è il] malcostume delle corti,
- mise contro di me l'animo di tutti [i cortigiani];
- e gli invidiosi influenzarono a tal punto l'imperatore,
- che i [miei] felici onori si trasformarono in cupi dolori.
- Il mio animo, essendo indignato, pensando che morendo
- avrebbe cancellato il disprezzo, mi fece [agire] in modo ingiusto
- contro me stesso, [mentre ero in realtà] una persona onesta.
- Giuro, per le nuove radici di questa pianta [che ora mi ospita],
- che mai infransi la fedeltà verso il mio signore,
- che fu [sempre] degno d'onore.
- E se uno di voi tornerà nel mondo [dei vivi],
- rivendichi il mio onore, che ancora
- subisce la fama che l'invidia gli procurò».
- [Virgilio] restò pensoso, e poi «Poiché egli tace»,
- mi disse il poeta, «non perdere tempo; ma parla,
- e domandagli [qualcosa], se vuoi».
- E allora gli dissi: «Sii tu a domandargli ancora
- su ciò che pensi possa soddisfare [il mio desiderio di sapere];
- perché io non posso, tanta è la mia commozione».
- Per questo riprese [a dire]: «ti si faccia
- prontamente ciò che chiedi,
- anima rinchiusa, se vuoi,
- spiega [noi ancora] come l'anima [una volta arrivata qui]
- si unisce a questi tronchi; e spiegaci, se puoi,
- se qualche [anima] si svincola mai da tale corpo».
- Allora il tronco emise un duro soffio, e il sibilo
- [che ne uscì] divenne questa voce:
- «Vi risponderò in poche parole.
- Quando l'anima violenta lascia il corpo
- da cui essa [da sé] si è strappata via,
- Minòs la destina al settimo cerchio.
- Precipita nella selva, e non viene stabilito alcun luogo per lei;
- ma lì dove il caso la scaglia, in quel luogo
- comincia a germogliare come un seme di spelta.
- Nasce un ramoscello che [diventa] una pianta selvatica:
- le Arpie, nutrendosi poi delle sue foglie,
- [le] fanno male e aprono al dolore il [suo] lamento.
- Come [tutte] le altre anime ci uniremo ai nostri corpi,
- ma non ci rivestiremo [nuovamente] con essi,
- perché non è giusto [ri]avere ciò che l'uomo ha rifiutato.
- Le trascineremo in questo luogo, e i nostri corpi
- saranno appesi nella triste selva,
- ognuno alla pianta [generata] dalla sua anima nemica».
- Noi eravamo ancora rivolti verso la pianta,
- pensando che volesse parlare d'altro,
- quando fummo colpiti da un rumore [improvviso],
- come quello che, nel luogo del suo appostamento,
- sente arrivare il cinghiale, e [di seguito] i cacciatori,
- [e] che avverte muoversi gli animali e le fronde.
- Ed ecco [arrivare] due [anime] da sinistra,
- nude e ferite, che fuggivano così velocemente,
- che [nel correre] spezzavano ogni fascio di rami.
- Il primo dei due [che arrivò, gridava]: «morte vieni adesso!».
- E il secondo, al quale sembrava di non correre abbastanza,
- urlava: «Lano, non furono così abili
- le tue gambe negli scontri dalle parti di Toppo!».
- E poiché forse gli mancava il fiato,
- si gettò dietro un cespuglio [quasi] avvolgendosi ad esso.
- Dietro di loro, la selva era piena di cagne nere,
- affamate e che correvano
- come levrieri appena slegati dalla catena.
- [Le cagne] azzannarono il dannato che si nascose [dietro al cespuglio],
- e lo straziarono pezzo per pezzo;
- e poi portarono via quei brandelli doloranti.
- Allora Virgilio mi prese per mano,
- e mi portò [vicino] al cespuglio che si lamentava
- inutilmente attraverso i [suoi] rami sanguinanti.
- «O Iacopo», diceva [piangendo] «da Santo Andrea,
- che vantaggio hai avuto nel nasconderti dietro me?
- Che cosa ho a che fare io con la tua colpa?».
- Quando Virgilio si fermò sopra di lui, domandò:
- «chi fosti [tu], che per tutti i rami che hai spezzati
- sfiati fuori assieme al sangue [questo] lamento?».
- Ed egli ci disse: «O anime che siete venute
- ad assitere allo scempio crudele
- che mi ha spezzato i rami,
- radunateli ai piedi del [mio] infelice cespuglio.
- Io nacqui nella città che cambiò il [suo] primo patrono
- con S. Giovanni Battista; per cui quello, per tale ragione,
- la renderà sempre infelice con la sua arte;
- e se non fosse che sopra il ponte che sovrasta l'Arno
- è rimasta qualche traccia di lui,
- quei cittadini che in seguito la rifondarono
- sopra le macerie che restarono [dopo il passaggio] di Attila,
- l'avrebbero fatta ricostruire invano.
- Io feci della mia casa la mia forca».
1 di là: la riva opposta del Flegetonte. Nel canto XII (cerchio VII) Dante e Virgilio incontrano i Centauri: uno di questi, Nesso, mostra a Dante i violenti e lo aiuta ad attraversare il fiume di sangue.
2 Nesso: nelle Metamorfosi di Ovidio (IX, 101 ss.) il centauro Nesso si innamora di Deianira (la moglie di Ercole) e tenta di rapirla mentre la trasporta in groppa sul fiume Evandro. Per questo Ercole lo uccide con una freccia avvelenata, ma, prima di morire, Nesso regala a Deianira la tunica inzuppata del suo sangue avvelenato, informandola che questa ha il potere di fare innamorare chiunque la indossi. Dopo qualche tempo Deianira fa indossare la tunica ad Ercole che, innamoratosi di Iole, la ignora. Per via del sangue avvelenato che la ricopre, Ercole diventa pazzo e muore.
3 Cecina e Corneto: la Maremma si estende tra il fiume Cecina (Toscana centro-meridionale) e Corneto Tarquinia (Lazio). Ai tempi di Dante era un luogo impervio, caratterizzato da una vegetazione bassa di arbusti ispidi.
4 brutte Arpie: esseri dal volto di ragazza e corpo di uccello, presenti nella mitologia greca, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e in Virgilio (Eneide, III, vv. 209- 257). L'aggettivo "brutte" è da intendersi qui con il significato di “sudicie”, “luride”: nel passo dell'Eneide le Arpie compaiono nelle isole Strofadi e appunto insudiciano le mense di Enea.
5 Strofade: le isole Strofadi (o Strivali), sono due piccole isole greche disabitate del Mar Ionio, chiamate Arpia e Stamfani. Sul loro suolo nidificano un gran numero di uccelli migratori.
6 tristo annunzio di futuro danno: durante l'episodio narrato da Virgilio nel libro III dell'Eneide, l'Arpia Celeno profetizza ad Enea e i compagni miseria e future sventure.
7 strani: l'aggettivo può essere riferito sia a "lamenti" che ad "alberi". Si tratta di uno dei primi indizi dell'accurata elaborazione retorica del canto, quasi una introduzione per Pier delle Vigne e la sua vicenda.
8 nel secondo girone: il secondo girone del cerchio VII punisce i violenti contro se stessi e le proprie cose.
9 l'orribil sabbione: il girone successivo è formato da una distesa di sabbia su cui piove fuoco.
10 vederai: figura retorica dell'epentesi, ovvero l'aggiunta di una vocale all'interno della parola: "ved-e-rai".
11 Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse: la complicazione retorica del poliptoto- non senza una punta di compiaciuto virtuosismo - anticipa il particolare stile del personaggio in cui Dante sta per imbattersi.
12 per: qui forma il complemento di moto da luogo. Spesso è usato per formare il complemento d'agente.
13 monchi: cioè con lo spezzarsi dei rami verranno meno e cadranno anche le errate supposizioni di Dante.
14 pruno: nome generico che indica una siepe spontanea, come il rovo o il biancospino. Dante probabilmente scegli il vocabolo anche per la sua qualità fonica scura (data dal nesso - pr -), ben adatta al contesto che descrive.
15 e or siam fatti sterpi: lo spirito spiega in poche parole la condizione dei dannati del secondo girone: essi sono piante ma conservano la natura di uomini. Il contrappasso per queste anime è quello che le vuole per sempre esiliate dai propri corpi umani, per scontare la pena eterna nella condizione inferiore di vegetale. Infatti i suicidi hanno deliberatamente rinunciato al corpo che non riacquisteranno mai più, nemmeno dopo il Giudizio. La fonte di Dante è un passo virgiliano dell'Eneide (sempre il III canto) in cui Enea, sbarcato sulle rive del mar di Tracia, incontra lo spirito di Polidoro sotto le sembianze di un cespuglio. L'episodio narrato da Dante ricalca quello virgiliano soltanto per il cespuglio che parla e gocciola sangue; il carattere della situazione è infatti assai dissimile.
16 serpi: il rimprovero del dannato suona severo: il serpente è - nella cultura medievale, e per evidenti implicazioni bibliche - il più infimo tra tutti gli animali.
17 geme: il verbo è qui usato in senso tecnico, dato che possiede anche il significato di “stillare”, “gocciolare”, “fuoriuscire”, “grondare”.
18 cigola: questo verbo può avere il significato di “stridere” o “gemere”; si noti la cura che Dante riserva alla scelta dei predicati verbali, per trasmettere ai suoi lettori l'immagine, sorprendente e un po' raccapricciante, di un ramo che emette una voce umana mista a sangue.
19 pur con la mia rima: Virgilio si riferisce appunto al passo del terzo libro dell'Eneide in cui è narrato l'episodio di Enea e Polidoro.
20 la cosa incredibile: e cioè il fatto che queste anime siano qui trasmutate in piante.
21 dove tornar li lece: Lece è un latinismo. Convenzionale il fatto che si spieghi spesso il fatto che un vivente, com'è Dante nel corso del suo viaggio, possa attraversarel'oltretomba.
22 m'inveschi: come accaduto poco prima con il verbo “addescare” (v. 55) anche in questo caso è presente un vocabolo appartenente al lessico venatorio: "inveschiare" significa letteralmente “catturare col vischio”. Il personaggio che parla è Pier della Vigna, ministro della corte siciliana dell'imperatore Federico II, il quale utilizza in questo dialogo il linguaggio tipico della società aristocratica in cui è vissuto. Lo stesso imperatore Federico è autore di un trattato sulla caccia, intitolato De arte venandi cum avibus.
23 Io son: Pier della Vigna nacque a Capua intorno al 1190 e studiò diritto a Bologna. Entrò alla corte di Federico II nel 1221 come notaio e divenne uno dei suoi più importanti collaboratori. Fino al 1248 rimase il più influente ministro di corte, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Parma, l'imperatore, insospettito dei suoi ministri, lo fece rinchiudere e torturare. Secondo alcuni storici, proprio a causa della vergona che provò, Pier della Vigna si tolse la vita. La tesi della sua innocenza è stata nel tempo sostenuta da diversi commentatori e storici, tra cui, in modo assai energico, dallo stesso Dante.
24 le chiavi: espressione elegante del linguaggio curiale, presente anche in una fonte epistolare (Nicolò da Rocca, amico di Pier della Vigna): “Tamquam Imperi claviger, claudit, et nemo aperit; aperit, et nemo claudit”.
25 Federigo: Federico II di Svevia (1194-1250), imperatore del Sacro Romano Impero dal 1215 al 1250. Stabilì la sua corte in Sicilia, dove guidò l'efficiente apparato statale ereditato dal ramo materno degli Altavilla, e qui promosse lo sviluppo delle lettere e delle arti. A lui stesso si deve la creazione della Scuola siciliana, la prima testimonianza in Italia dell'utilizzo di una lingua romanza, nella cultura letteraria di corte. Pier della Vigna, assieme al più noto Jacopo da Lentini, Rinaldo D'Aquino, Guido delle Colonne (per citarne solo alcuni), fu uno dei funzionari coinvolti nel nobile intrattenimento voluto dall'imperatore. Figura di enorme rilievo storico, fu una delle personalità più influenti del tardo Medioevo.
26 La meretrice: comincia qui una lunga metafora, affiancata da una crescente enfasi stilistica del discorso. Il riferimento qui è l'invidia di corte.
27 L'animo mio...contra me giusto: l'invidia di corte porta Pier della Vigna al suicidio, a commettere una violenza contro se stesso, contro il naturale istinto dell'uomo, e cioè contro l'amor proprio e della vita.
28 nove: da intendere come “nuove”, per il poco tempo trascorso dalla morte (all'incirca cinquant'anni), ma anche come “strane”, “bizzarre”, in quanto sottolinea il passaggio da essere umano a vegetale.
29 riede: dal latino redire, "ritornare".
30 m'accora: "mi commuove". Si noti come, in particolar modo per i primi dannati che incontra (quelli macchiatisi delle colpe meno gravi...), Dante provi spesso un moto di compassione umana per i loro errori (come nel caso emblematico di Paolo e Francesca), sebbene, com'è ovvio, non giunga ad assolverli.
31 om: ha qui valore impersonale, come l'on francese.
32 nocchi: metonimia per i tronchi nodosi che ospitano le anime dei dananti.
33 si spiega: Virgilio, da guida e "dolce duca", domanda per conto di Dante, in che modo le anime dei suicidi si uniscano alle piante e se è possibile che qualcuna possa liberarsi da questa condizione.
34 Allor soffiò il tronco forte: l'anima, come già descritto nei vv. 40-42, si sforza di parlare facendo uscire un soffio dal tronco.
35 l'anima feroce: feroce: "feroce in qauntoi suicidi sono anime di violenti che hanno agito contro se stessi (e, soprattutto, contro la legge di Dio, che ha infuso quell'anima nei corpi mortali).
36 Minòs: all'entrata dell'Inferno Minòs giudica le colpe dei dannati e ne decide la destinazione. Figlio di Giove e Europa, fu re di Creta secondo la mitologia greca; già in Omero era il giudice delle anime dell’Ade. La fonte di Dante è però Virgilio (Eneide VI, vv. 432-433). Cfr. Inferno, Canto V (vv. 4- 24).
37 balestra: l'anima viene scagliata rapidamente, come una freccia.
38 spelta: cereale, antenato del frumento, che cresce molto rapidamente.
39 e al dolor fenestra: dalla lesione che le Arpie creano nella pianta, fuoriesce il lamento dell'anima che vi abita: duplice quindi la punizione per i suicidi.
40 Come l'altre...ch'om si toglie: per i suicidi non v'è possibilità di ricongiungersi al proprio corpo, in quanto, con il libero arbitrio, essi hanno scelto di rifiutare l'unione, voluta da Dio, di spirito e corpo.
41 Qui le strascineremo: anche le anime dei suicidi si recheranno nella valle di Giosafat nel giorno del Giudizio Universale, da cui trascineranno i propri corpi fino alla selva.
42 molesta: l'anima ha danneggiato il proprio corpo e di questo è diventata nemica.
43 d'un romor sorpresi: la scena muta all'improvviso, e le ultime terzine del canto sono dedicate agli scialacquatori, e cioè coloro che furono violenti contro le proprie cose, i quali sono puniti nello stesso cerchio dei suicidi.
44 nudi: tutti i dannati all'Inferno sono nudi, ma Dante sceglie di ripeterlo qui per rendere più nitida l'immagine del contrappasso.
45 Quel dinanzi: il primo dei due dannati è, probabilmente, il senese Arcolano (Lano) da Squarcia di Riccolfo Maconi, ricordato dagli antichi commentatori come “guastatore e disfacitore di sua facultade” (secondo Francesco di Bartolo, detto il Buti, 1324-1406).
46 morte: i dannati invocano una morte che equivalga al nulla, cioè al non esserci più.
47 E l'altro: padovano, Iacopo da Santo Andrea, altro scialacquatore ricordato dalle cronache per aver incendiato una sua casa solo per il gusto “di vedere un gran fogo” (Iacopo dalla Lana, 1278 circa- ?)
48 a le giostre: il riferimento alle giostre è sarcastico; Lano perdette la vita proprio nella battaglia avvenuta nel 1288 presso Pieve di Toppo, in Val di Chiana, in cui i Senesi furono assaliti in un'imboscata dagli Aretini. I critici moderni hanno notato in questo passaggio una particolare sfumatura psicologica del personaggio di Iacopo: una forma di invidia nei confronti del compagno più veloce.
49 In quel che s'appiattò: le cagne si avventano su Iacopo di Santo Andrea, che ha cercato rifugio nel cespuglio.
50 elli: l'identità di questo personaggio è incerta, secondo alcuni si tratta di Lotto degli Agli, mentre altri lo identificano con Rocco dei Mozzi, entrambi fiorentini.
51 'l primo padrone: il dio Marte, il primo protettore di Firenze. Secondo la tradizione la città fu fondata nel 59 a.C.
52 ond' ei: e cioè il dio pagano Marte.
53 l'arte sua: la guerra; allusione polemica di Dante alle divisioni interne e alla lotta tra fazioni che insaguina Firenz.e
54 Nei pressi del Ponte Vecchio era rimasta la traccia di un basamento di statua di Marte (travolta poi dall'Arno durante una inondazione nel 1333). Secondo il personaggio, dopo il passaggio di Attila, che rase la città al suolo, i cittadini si adoperarono inutilmente a ricostruirla, in quanto il dio pagano avrebbe continuato ad ispirare gli animi dei fiorentini alla guerra fratricida.
55 gibetto: dal francese antico gibet che significa “forca”, “patibolo”.