All’inizio del sesto canto del Purgatorio, Dante e Virgilio sono ancora nell’Antipurgatorio, diretti verso la Porta che introduce alle sette cornici vere e proprie; qui i due pellegrini incontrano le anime che stanno espiando una loro peculiare negligenza in vita, prima di accedere al monte. Ai vv. 1-24 le anime dei morti violentemente si affollano attorno al poeta e, riconoscendolo come vivente, gli chiedono di ricordarle nelle preghiere sulla Terra, così da ridurre il loro periodo di attesa. Segue poi l’incontro con Sordello, e lo sviluppo della tematica politica, come caratteristico dei sesti canti (si vedano quello di Ciacco e quello di Giustiniano).
- Quando si parte il gioco de la zara 1,
- colui che perde si riman dolente,
- repetendo le volte, e tristo impara 2;
- con l’altro se ne va tutta la gente;
- qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
- e qual dallato li si reca a mente;
- el non s’arresta, e questo e quello intende;
- a cui porge la man, più non fa pressa;
- e così da la calca si difende 3.
- Tal era io in quella turba spessa,
- volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
- e promettendo mi sciogliea da essa.
- Quiv’era l’Aretin 4 che da le braccia
- fiere di Ghin di Tacco 5 ebbe la morte,
- e l’altro ch’annegò 6 correndo in caccia 7.
- Quivi pregava con le mani sporte
- Federigo Novello 8, e quel da Pisa 9
- che fé parer lo buon Marzucco forte.
- Vidi conte Orso 10 e l’anima divisa 11
- dal corpo suo per astio e per inveggia,
- com’e’ dicea, non per colpa commisa;
- Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
- mentr’è di qua, la donna di Brabante,
- sì che però non sia di peggior greggia 12.
- Come libero fui da tutte quante
- quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
- sì che s’avacci lor divenir sante,
- io cominciai: "El par che tu mi nieghi,
- o luce mia, espresso in alcun testo 13
- che decreto del cielo orazion pieghi;
- e questa gente prega pur di questo:
- sarebbe dunque loro speme vana,
- o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?".
- Ed elli a me: "La mia scrittura è piana;
- e la speranza di costor non falla,
- se ben si guarda con la mente sana;
- ché cima di giudicio non s’avvalla
- perché foco d’amor compia in un punto
- ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
- e là dov’io fermai cotesto punto,
- non s’ammendava, per pregar, difetto,
- perché ’l priego da Dio era disgiunto 14.
- Veramente a così alto sospetto
- non ti fermar, se quella nol ti dice
- che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.
- Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
- tu la vedrai di sopra, in su la vetta
- di questo monte, ridere e felice".
- E io: "Segnore, andiamo a maggior fretta,
- ché già non m’affatico come dianzi,
- e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta".
- "Noi anderem con questo giorno innanzi",
- rispuose, "quanto più potremo omai;
- ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.
- Prima che sie là sù, tornar vedrai
- colui che già si cuopre de la costa 15,
- sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.
- Ma vedi là un’anima che, posta
- sola soletta, inverso noi riguarda:
- quella ne ’nsegnerà la via più tosta".
- Venimmo a lei: o anima lombarda 16,
- come ti stavi altera e disdegnosa
- e nel mover de li occhi onesta e tarda!
- Ella non ci dicëa alcuna cosa,
- ma lasciavane gir, solo sguardando
- a guisa di leon quando si posa.
- Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
- che ne mostrasse la miglior salita;
- e quella non rispuose al suo dimando,
- ma di nostro paese e de la vita
- ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
- "Mantüa ...", e l’ombra, tutta in sé romita 17,
- surse ver’ lui del loco ove pria stava,
- dicendo: "O Mantoano, io son Sordello
- de la tua terra!"; e l’un l’altro abbracciava.
- Ahi serva Italia 18, di dolore ostello,
- nave sanza nocchiere in gran tempesta,
- non donna di provincie, ma bordello!
- Quell’anima gentil 19 fu così presta,
- sol per lo dolce suon de la sua terra,
- di fare al cittadin suo quivi festa;
- e ora in te non stanno sanza guerra
- li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
- di quei ch’un muro e una fossa serra 20.
- Cerca, misera, intorno da le prode
- le tue marine 21, e poi ti guarda in seno 22,
- s’alcuna parte in te di pace gode.
- Che val perché ti racconciasse il freno
- Iustinïano 23, se la sella è vòta 24?
- Sanz’esso fora la vergogna meno 25.
- Ahi gente che dovresti esser devota 26,
- e lasciar seder Cesare in la sella,
- se bene intendi ciò che Dio ti nota,
- guarda come esta fiera è fatta fella
- per non esser corretta da li sproni,
- poi che ponesti mano a la predella 27.
- O Alberto tedesco 28 ch’abbandoni
- costei 29 ch’è fatta indomita e selvaggia,
- e dovresti inforcar li suoi arcioni 30,
- giusto giudicio da le stelle caggia
- sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
- tal che ’l tuo successor temenza n’aggia 31!
- Ch’avete tu e ’l tuo padre 32 sofferto,
- per cupidigia di costà distretti,
- che ’l giardin de lo ’mperio 33 sia diserto.
- Vieni a veder Montecchi e Cappelletti 34,
- Monaldi e Filippeschi 35, uom sanza cura:
- color già tristi, e questi con sospetti!
- Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
- d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
- e vedrai Santafior 36 com’è oscura!
- Vieni a veder la tua Roma che piagne
- vedova e sola, e dì e notte chiama:
- "Cesare mio, perché non m’accompagne?".
- Vieni a veder la gente quanto s’ama 37!
- e se nulla di noi pietà ti move,
- a vergognar ti vien de la tua fama.
- E se licito m’è, o sommo Giove
- che fosti in terra per noi crucifisso,
- son li giusti occhi tuoi rivolti altrove 38?
- O è preparazion che ne l’abisso
- del tuo consiglio fai per alcun bene
- in tutto de l’accorger nostro scisso?
- Ché le città d’Italia tutte piene
- son di tiranni, e un Marcel diventa
- ogne villan che parteggiando viene 39.
- Fiorenza mia 40, ben puoi esser contenta
- di questa digression che non ti tocca,
- mercé del popol tuo che si argomenta.
- Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
- per non venir sanza consiglio a l’arco;
- ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.
- Molti rifiutan lo comune incarco;
- ma il popol tuo solicito risponde
- sanza chiamare, e grida: "I’ mi sobbarco!".
- Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
- tu ricca, tu con pace e tu con senno!
- S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
- Atene e Lacedemona 41, che fenno
- l’antiche leggi e furon sì civili,
- fecero al viver bene un picciol cenno
- verso di te, che fai tanto sottili 42
- provedimenti, ch’a mezzo novembre
- non giugne quel che tu d’ottobre fili.
- Quante volte, del tempo che rimembre,
- legge, moneta, officio e costume
- hai tu mutato, e rinovate membre 43!
- E se ben ti ricordi e vedi lume,
- vedrai te somigliante a quella inferma
- che non può trovar posa in su le piume,
- ma con dar volta suo dolore scherma.
- Quando termina il gioco della zara,
- colui che ha perso rimane triste e solo,
- riprova invano i tiri ed impara suo malgrado;
- con il vincitore stanno invece tutti gli astanti,
- c’è chi si mette davanti, chi dietro
- chi di lato solo per farsi notare;
- ma egli non si ferma, e non ascolta nessuno;
- a chi dà una piccola mancia, questi se ne va,
- e così il vincitore si difende dalla gente.
- Così ero io in quella schiera di anime ricca,
- volgendo loro lo sguardo, di qua e di là,
- e ascoltando e promettendo mi allontanavo.
- Tra loro c’era l’Aretino che fu ucciso dalle
- mani violente di Ghino di Tacco,
- e l’altro che annegò inseguendo i nemici.
- In questo luogo pregava con le mani verso
- l’alto Federigo Novello, ed il pisano che fece
- sembrare il generoso Marzucco forte.
- Vidi il conte Orso e l’anima divisa dal suo
- corpo per gelosia ed invidia, come egli
- diceva, e non per colpa commessa;
- voglio dire Pierre de la Brosse, e per questo
- provveda in vita Maria di Bramante,
- così da non finire in una condizione peggiore.
- Quando mi liberai dalla presenza di quelle
- anime che mi pregavano per le intercessioni,
- così che s’accelerasse la loro purificazione,
- io cominciai: “Mi sembra che tu neghi,
- o mio maestro, nella tua opera,
- l’efficacia dei suffragi e delle intercessioni;
- ma queste anime prega solo per questo:
- è dunque vana la loro speranza,
- o non ho compreso bene il tuo pensiero?”
- E lui a me: “Il mio testo è semplice,
- e la loro speranza non è vana,
- se la si considera con la mente sgombra da eresie;
- perché l'altezza del giudizio di Dio non si abbassa
- perché le preghiere ardenti dei vivi modifichino
- in un istante ciò che ha lunga durata per chi qui dimora;
- e dove io parlai di questo argomento,
- non esisteva il compenso della colpa con la preghiera,
- perchè la preghiera era fatta da un pagano.
- Davvero non fermare il tuo intelletto
- ad un dubbio così profondo, se non te lo dice
- colei che porterà la luce tra il vero e l’intelletto.
- Non so se capisci: mi riferisco a Beatrice;
- tu la vedrai più in alto, sulla vetta
- di questo monte, ridere e felice”.
- Ed io: “Signore, andiamo con più fretta,
- chè già mi stanco meno di prima,
- e vedi che il monte proietta già la sua ombra”.
- “Continueremo a camminare finchè ci sarà
- luce” rispose “fino a che ci sarà possibile;
- ma sarà più difficile di quanto credi.
- Prima di essere là su, vedrai tornare
- colui che già si nasconde dietro il monte,
- così che tu non interrompi più i suoi raggi.
- Ma vedi là un’anima che, posta
- sola soletta, guarda verso di noi:
- lei ci indicherà la via più veloce”.
- Andammo verso di lei: o anima lombarda,
- che stavi fiera e schiva
- e lenta e orgogliosa nel muovere gli occhi!
- Lei non disse nulla, ma ci lasciava
- andare in giro, guardava solo
- come se fosse un leone mentre si riposa.
- Anche Virgilio si avvicinò a lei, chiedendo
- umilmente che indicasse loro la strada;
- quella non rispose alla sua domanda,
- ma lei ci chiese da dove venissimo
- e chi fossimo; e la mia giuda iniziò dicendo:
- “Mantova…” e l’anima, chiusa in se stessa,
- si alzò verso di lui da dove stava prima,
- dicendo: “O Mantovano, io sono Sordello,
- della tua terra!” e si abbracciarono.
- Ahi, Italia, schiava, albergo di dolore,
- nave senza guida in una tempesta,
- non donna rispettabile, ma prostituta!
- Quell’anima cortese fu così veloce,
- al solo sentire il dolce nome della sua città
- natia, di abbracciare il suo concittadino;
- ed ora invece non stanno senza farsi guerra
- i tuoi abitanti; e si combattono l’un l’altro
- coloro che vivono nella stessa città.
- Cerca, o misera nazione, lungo le tue coste
- che cingono i tuoi mari, e poi guardati dentro,
- se esiste una parte di te che vive in pace.
- A cosa è servito che Giustiniano ristabilisse
- la forza del Diritto, se poi la sella è vuota?
- Senza questo fatto almeno la vergogna sarebbe minore.
- Ahi gente che dovresti essere devota a Dio,
- e dovresti lasciar sedere Cesare in sella,
- se capisci bene quello che Dio ti insegna,
- guarda come questa bestia è divenuta ribelle
- per non essere corretta dagli speroni,
- da quando la tieni per la briglia.
- O Alberto d’Austria che abbandoni
- colei che è divenuta ribelle e selvaggia
- e che dovresti invece montare sulla sella e domarla,
- ricada sulla tua stirpe un giusto castigo
- dal cielo, e sia straordinario ed evidente,
- tale che ne abbia paura il tuo successore!
- Tu e tuo padre avete sopportato,
- trattenuti in Germania per la bramosia,
- che il giardino dell’impero fosse abbandonato.
- Vieni a vedere Montecchi e Cappelletti,
- Monaldi e Filippeschi, uomini senza onore:
- i primi sofferenti, gli altri sospettosi!
- Vieni, crudel, vieni, e osserva l’oppressione
- in cui stanno i tuoi vassalli, cura i loro errori;
- e ti accorgerai di come Santafiore è decaduta!
- Vieni a vedere come la tua Roma piange
- abbandonata e sola, e chiama ad ogni ora:
- "Cesare mio, perchè non mi accompagni?"
- Vieni a vedere come si ama la gente!
- E se nulla di tutto ciò ti muove a compassione
- vergognati almeno della tua fama in Italia.
- E se mi è concesso, o sommo Dio
- che fosti crocifisso per noi in terra,
- sono i tuoi occhi giusti rivolti altrove?
- O forse è preparazione, nell’abisso
- della tua mente, di un bene imprevedibile
- e del tutto estraneo alla nostra comprensione?
- Poichè le città italiane sono tutte piene
- di tiranni, e un villano che appartiene
- a una certa fazione può divenire un Marcello.
- Firenze mia, puoi essere ben contenta di
- questa digressione che non ti riguarda,
- grazie al tuo popolo che si dà da fare.
- Molti hanno il senso della giustizia, ma lo
- manifestano tardi per non parlare invano;
- invece i fiorentini la conoscono molto a parole.
- Molti non accettano gli incarichi pubblici;
- ma i fiorentini si propone di accettare
- anche senza essere chiamato: “Accetto!”
- Stai felice, perché ne hai ben motivo:
- tu ricca, tu pacificata e tu illuminata!
- Se io dico il vero, i fatti non lo nascondono.
- Atene e Sparta, che scrissero le antiche leggi
- e furono così civili e strutturate,
- fecero per il bene comune piccole cose
- in confronto a te, che crei così arguti
- provvedimenti, che a metà novembre
- non arriva ciò che avevi deciso ad ottobre.
- Quante volte, nel periodo di tempo che ricordi,
- legge, moneta, istituzioni e usanze
- hai cambiato, ed anche la cittadinanza!
- E se ti ricordi bene e vedi con coscienza,
- ti vedrai simile a quella vecchia malata
- che non riesce a riposarsi neanche su un materasso di piume,
- e cerca sollievo dal dolore continuando a girarsi.
1 zara: un gioco di dadi (zahr in arabo significa appunto “dado”), abbastanza simile all’odierna “morra”.
2 impara: lo sconfitto, si esercita ancora nel gioco (ripassando e riprovando le “volte”, ovvero i lanci dei dadi che hanno deciso il gioco), ma ormai è troppo tardi, avendo egli già perso la partita.
3 Le prime tre terzine ad apertura del canto sono un’ampia similitudine in cui si mette a confronto il pubblico che assiste ad una partita ai dadi (e che si affretta attorno al vincitore) con le anime che si accalcano attorno a Dante.
4 Aretin: Benincasa da Laterina, giureconsulto del XIII secolo che condannò a morte uno zio ed un fratello di Ghino di Tacco.
5 Ghino di Tacco: membro della famiglia senese della Fratta, a seguito della condanna dei parenti ad opera del Laterina, uccise quest’ultimo tagliandogli la testa in un’aula di un tribunale di Roma. Divenuto brigante, si stabilì nella rocca di Radicòfani (nell’attuale provincia di Siena), dedicandosi a taglieggiare soprattutto pellegrini e viandanti, creandosi tuttavia l’aura di ladro dai modi signorili (come ricordato da Boccaccio nell’omonima novella del Decameron).
6 l’altro ch’annegò: Guccio dei Tarlati, ghibellino, di Pietramala (Arezzo), morì annegando nell’Arno.
7 correndo in caccia: l’espressione può alludere sia all’inseguimento dei nemici che ad una fuga da loro, e potrebbe riferirsi a diverse versioni sulla morte di Guccio.
8 Federigo Novello: figlio di Guido Novello, ucciso nel 1289 o nel 1291.
9 quel di Pisa: tale Gano o Farinata, figlio di Marzucco degli Scornigliani, probabilmente ucciso su mandato di Ugolino della Gherardesca. La figura del padre resta celebre nelle cronache per la fortezza con cui seppe trattenere il dolore e rifiutare la vendetta.
10 Conte Orso: Orso degli Alberti, figlio di Napoleone degli Alberti, posto nella Caina (Inferno, XXXII, vv. 41-60).
11 l’anima divisa: Dante si riferisce a Pierre de la Brosse (1230-1278). Questi fu un chirurgo e divenne ciambellano di Filippo III l’Ardito; quando nel 1276 morì il figlio del re, Pierre accusò la seconda moglie Maria di Bramante di aver avvelenato il figlio e questo gli procurò odio, invidia e astio. Nello scontro tra Alfonso X e Filippo III, Pierre venne accusato di tradimento e per questo impiccato. Altra fonte riporta che la regina - mentendo e dopo che il ciambellano aveva respinto le lusinghe della regina - avrebbe detto al re che Pierre avrebbe tentata di sedurla, e per questo venne condannato a morte.
12 peggior greggia: Dante si riferisce qui al comportamento avuto dalla regina e dalla sua possibile dannazione; si affaccia qui il tema del potere politico e della corruzione degli uomini.
13 testo: il testo a cui Dante si riferisce è un passo dell’Eneide (nello specifico il libro VI, v. 367: “desine fata deum flecti sperare precando”, ovvero: “rinuncia a sperare di poter piegare la volontà degli dei con lacrime e preghiere”), dove si descrive il momento in cui Enea e Palinuro, parlando con la Sibilla, vengono a sapere che sono inutili le preghiere dei vivi per intercedere per i defunti.
14 perché ’l priego da Dio era disgiunto: Virgilio vuole anche specificare che nel suo testo le preghiere di intercessione erano inutili perchè fatte da un pagano, e quindi non esaudibili dal Dio cristiano.
15 Passeranno cioè alcuni giorni prima che Dante possa giungere al Paradiso Terrestre.
16 anima lombarda: quest’anima è Sordello da Goito (1200/1210-1269), nato a Mantova, città natale anche di Virgilio, visse inizialmente presso la corte di Verona, poi a Treviso per spostarsi infine in Provenza presso Raimondo Berengario V. Dopo morte del conte, nel 1245, entrò nella corte di Carlo I d’Angiò conte di Provenza e in seguito re di Napoli, città in cui il poeta lo seguì fedelmente. Poeta trovatore, scrisse molti testi in italiano ed in provenzale, e fu un uomo noto ed apprezzato per le sue abilità diplomatiche in tutte le corti in cui si fermò. Sordello nel Purgatorio viene caratterizzato come un uomo fiero e nobile, dal forte attaccamento alla patria natia e cultore della buona politica, che deve assicurare pace ed equilibrio a tutti. Proprio dopo questi elementi prende avvio l’invettiva contro l’Italia, attraversata da violenze e lotte intestine.
17 romita: già nel tratteggio fisico e comportamentale di Sordello emergono la magnanimità del suo carattere (un’anima “altera e disdegnosa [...] onesta e tarda”, vv. 62-63) e il naturale rispetto che ingenera in chi le si avvicina (la similitudine con il leone e il pudore dello stare “romita” di fronte a Dante e Virgilio).
18 Ai vv. 76-126 Dante, vedendo l’affetto tra i due concittadini ritrovatisi nel Purgatorio, ripensa alla sitiazione dell’Italia e prorompe in un’amarissima apostrofe in cui parla non più solo come personaggio (e cioè come figura allo stesso livello delle altre del mondo di finzione), ma soprattutto come poeta (quindi, come realtà esterna e superiore rispetto all’invenzione letteraria).
19 anima gentil: la forte contrapposizione è tra il sentimento di Sordello e Virgilio, uniti solo per la comune appartenenza ad una città, e la situazione socio-politica del tempo di Dante, come viene esplicitato bene nella terzina successiva quando si spiega che gli abitanti dell’Italia continuano a farsi guerre anche se sono chiusi dalle stesse mure. Nell’ottica politica di Dante sono questi scontri tra fazioni (e il generale clima da guerra civile) a minare alle basi l’idea di un Impero universale terrestre.
20 quei ch’un muro e una fossa serra: è questa per Dante la conflittualità peggiore (evidentemente, anche per la memoria personale dell’esilio e della condanna a morte a Firenze), quella tra concittadini che abitano dentro le stesse cerchia di mura.
21 le tue marine: possibile l’allusione, oltre che allo sviluppo delle coste italiane, alle repubbliche marinare in lotta per l’egemonia sui traffici commerciali.
22 in seno: riferimento alle città toscane e in generale all’interno della nazione, in cui, per i conflitti politici tra Papato e Impero, è particolarmente grave il tema dello scontro fratricida.
23 Iustiniano: Giustiniano (482-565), imperatore dell’Impero Romano d’Oriente ricordato nel sesto canto del Paradiso, scrisse il Corpus Iuris Civilis, una fondamentale raccolta e sistemazione di leggi su cui si basò il diritto per tutto il Medioevo. Proprio il Corpus sta al centro della metafora (rinvenibile anche nel quarto libro del Convivio) per cui l’Italia sarebbe un cavallo ribelle, cui il potere imperiale ha posto un “freno” (e cioè le briglie e il morso con cui si indirizza la cavalcata) attraverso l’attività legislativa.
24 se la sella è vòta?: la preziosa eredità di Giustiniano è stata insomma sperperata, in quanto per Dante l’assenza del potere imperiale ha fatto precipitare la situazione fino al caos attuale.
25 sanz’esso fora la vergogna meno: seguendo la metafora, Dante dice che l’Italia avrebbe meno da vergognarsi se almeno non avesse a disposizione il corpo di leggi scritto dallo stesso Giustiniano.
26 devota: l’aggettivo è qui da riferirsi sia agli ecclesiastici che non rispettano la divisione dei poteri, sia ai signori d’Italia che non obbediscono all’Imperatore. Il tono di Dante è tra il sarcastico e l’indignato.
27 predella: la briglia, utilizzata per condurre il cavallo a mano.
28 O Alberto tedesco: Alberto I d’Austria (1248-1308), divenne imperatore nel 1298; non si recò mai in Italia e per questo, forse, l’aggettivo sarcastico scelto da Dante (la qualifica degli imperatori era infatti quella di essere rex Romanorum).
29 costei: l’Italia.
30 e dovresti inforcar li suoi arcioni: dovresti montare nuovamente in sella per domarla. Continua la metafora dell’Italia-cavallo e dell’imperatore-cavaliere.
31 tal che ’l tuo successor temenza n’aggia: l’allusione è a Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) come pressante richiesta affinché scenda in Italia a ristabilire l’ordine.
32 tu e ‘l tuo padre: tu, Alberto, e tuo padre Rodolfo d’Asburgo. Dante incontrerà Rodolfo nella “valletta dei principi”, nel canto successivo.
33 giardin de lo ‘mperio: l’Italia, secondo la concezione politica dantesca, è intrinsecamente la culla del potere imperiale.
34 Montecchi e Cappelletti: nomi di due famiglie, una di Verona, ghibellina, ed una di Cremona, guelfa, ridotte a mal partito (quindi “tristi”) e che vennero prese ad esempio da Dante per la pessima situazione politica italiana.
35 Monaldi e Filippeschi: famiglie di Orvieto, la prima guelfa e la seconda ghibellina, che prefigurano entrambe (“con sospetti”) la futura rovina.
36 Santafior: feudo della famiglia degli Aldobrandeschi, simbolo della decadenza feudale della famiglia costretta a cederlo insieme ad altri territori alla città di Siena. Il crollo del mondo feudale è insomma una delle cause principali della disgregazione dei valori che Dante condanna senza possibilità di appello.
37 Vieni a veder la gente quanto s’ama: espressione chiaramente sarcastica, come tutta l’invettiva.
38 son li giusti occhi tuoi rivolti altrove: il rimando ai Salmi (XLIII, 24) sottolinea ulteriormente la forza dell’invettiva dantesca.
39 e un Marcel diventa | ogne villano che parteggiando viene: Marcello è probabilmente da identificarsi con C. Claudio Marcello, console nel 50 a.C., strenuo avversario di Giulio Cesare (e ricordato da Lucano), oppure con M. Claudio Marcello, colui che espugnò Siracusa nel 212 a.C., durante la seconda guerra punica (come ricordato da VIrgilio). Nel primo caso, l’allusione vuol significare che un qualsiasi capopopolo può ribellarsi all’autorità imperiale (colpa gravissima per il poeta), mentre nel secondo il rimando alla storia romana è utile per far saltare agli occhi la piccolezza e la meschinità di chi si erge a salvatore della patria coltivando però interessi di parte.
40 In questi versi finali (vv. 127-151) del canto Dante apostrofa anche la sua città natale, con amara ironia.
41 Atene e Lacedemona: Atene e Sparta, considerate le capostipiti del diritto attraverso le figure, rispettivamente, di Solone e Licurgo, i due legislatori dell’antichità.
42 sottili: questo aggettivo può avere due significati: o "arguti, scaltri" oppure "deboli, esili". L’ironia è data, anche in questo caso, dalla duplicità semantica dell’aggettivo.
43 e rinovate membre: sintetica allusione, carica di rabbia personale, alla pratica della condanna all’esilio, strumento cui ricorreva, volta per volta, ogni fazione politica che prendeva il controllo della città.