Introduzione
Dopo l’Inno a Venere proemiale (vv. 1-49) e un breve invito al lettore a liberare la mente per poter comprendere le leggi della natura e i principi delle cose (vv. 50-61), Lucrezio inserisce nel primo libro del suo De rerum natura il primo dei quattro elogi di Epicuro che scandiscono l’intera opera 1 e, a seguire, una difesa della dottrina epicurea dall’accusa di empietà, la quale si trasforma presto in un duro attacco contro la religio tradizionale. Infatti mentre l’empietà - da intendersi sostanzialmente come ateismo - non può condurre agli occhi di Lucrezio a nessun crimine, la religione e la superstizione (in latino, la superstitio) possono invece divenire causa di molti errori e delitti (v. 83: “scelerosa atque impia facta”), come dimostra l’episodio mitologico di Ifigenia, qui descritto ai vv. 84-100.
Riassunto e analisi
Ai vv. 62-79 si legge quindi l’elogio di Epicuro, che viene indicato - secondo lo schema del pròtos euretès (letteralmente, “il primo scopritore”) tanto caro agli antichi - come il primo ad aver avuto il coraggio di liberarsi dall’oppressione della religio e ad aver così permesso all’umanità intera di vincere la superstizione e le paure da questa generate (come l’intervento divino sulla Terra, la morte e la punizione ultraterrena per le colpe commesse in vita). Lucrezio insiste particolarmente sul primato del suo “maestro”: ai vv. 66-67 si può notare la ripetizione in poliptoto di “primum” (come avverbio) e “primus” (come aggettivo), che poi ritorna a v. 71 in corrispondenza della cesura semiquinaria. Si veda poi l’insistenza sull’avverbio “contra”, posto alla fine di due versi consecutivi (vv. 66-67), secondo la figura retorica dell’epifora, che rafforza l’immagine di Epicuro come strenuo oppositore della tradizione. Il filosofo greco è infatti presentato come un eroico combattente in virtù non delle sue doti fisiche ma del suo acume intellettuale: egli infatti è stato l’unico pensatore capace di penetrare la vera natura del mondo e dell’universo e di trasmettere agli altri uomini la giusta comprensione del cosmo e delle sue leggi, nonché del senso della vita umana.
Dal v. 80 Lucrezio si rivolge direttamente al lettore e lo invita a non temere l’empietà della dottrina epicurea. Secondo l’autore, non è l’epicureismo con la sua critica alla religiosità tradizionale a portare l’uomo verso azioni contrarie alla morale, ma è proprio la religio che ha condotto gli uomini a gesti di grave empietà. Tra tutti, Lucrezio sceglie l’esempio emblematico del sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre Agamennone per placare l’ira degli dei (nella fattispecie Artemide, inviperita con Agamennone per l’uccisione di una cerva) e assicurare una felice navigazione agli Achei verso Troia. Si deve notare come Lucrezio prediliga la versione del mito meno diffusa e meno edulcorata: non quella a lieto fine proposta da Euripide nell’Ifigenia in Aulide (e verisimilmente ripresa nel mondo latino da Nevio e da Ennio) secondo cui la dea sarebbe intervenuta all’ultimo momento per sostituire la ragazza, peraltro vittima consenziente, con una cerva, bensì quella raccontata da Eschilo nel prologo dell’Agamennone, in cui Ifigenia, presentata come una vittima muta e riluttante alla morte, è realmente sacrificata dal padre 2. Solo questa versione del mito, infatti, consentiva al poeta di mettere in luce come dalla pietà religiosa possano nascere azioni empie. Dell’episodio mitico, Lucrezio descrive solo i momenti precedenti il sacrificio, concentrandosi soprattutto sulla caratterizzazione psicologica del personaggio di Ifigenia: attraverso i suoi occhi vediamo il padre vicino all’altare, i sacerdoti che celano l’arma del sacrificio e gli occhi pieni di lacrime dei concittadini; poi la ragazza viene trascinata all’altare e fatta inginocchiare. La descrizione del sacrificio, come già in Eschilo, è taciuta, mentre una lapidaria sententia conclude e commenta l’intero episodio: “tantum religio potuit suadere malorum” (ovvero: “la religio poté persuadere a compiere così grandi mali”).
Metro: esametri dattilici.
- Hùmana ànte oculòs foedè cum vìta iacèret
- ìn terrìs opprèssa gravì sub rèligiòne,
- quaè caput à caelì regiònibus òstendèbat
- hòrribilì super àspectù mortàlibus ìnstans,
- prìmum Gràius homò mortàlis 3tòllere còntra
- èst oculòs ausùs primùsque obsìstere còntra;
- quèm neque fàma deùm nec fùlmina nèc minitànti
- mùrmure 4 còmpressìt caelùm, sed eò magis àcrem
- ìnritàt 5 animì virtùtem, effrìngere ut àrta
- nàturaè primùs portàrum 6clàustra cupìret.
- Èrgo vìvida vìs animì pervìcit 7 et èxtra
- pròcessìt longè flammàntia moènia mùndi
- àtque omne ìmmensùm peragràvit 8 mènte animòque 9,
- ùnde refèrt nobìs victòr quid pòssit orìri,
- quìd nequeàt, finìta potèstas dènique cùique
- quànam sìt ratiòne atque àlte tèrminus haèrens.
- Quàre rèligiò pedibùs subiècta vicìssim
- òpteritùr 10, nos èxaequàt victòria caèlo.
- Ìllud in hìs rebùs vereòr, ne fòrte reàris 11
- ìmpia te 12 ratiònis inìre elemènta 13 viàmque
- ìndugredì 14 scelerìs. quod còntra saèpius ìlla
- rèligiò peperìt sceleròsa atque ìmpia fàcta.
- Aùlide quò pactò Triviài vìrginis 15àram
- Ìphianàssaì 16 turpàrunt sànguine foède
- dùctorès Danaùm delècti, prìma viròrum.
- Cùi simul ìnfula 17 vìrgineòs circùmdata còmptus
- èx utràque parì malàrum parte profùsast,
- èt maestùm simul ànte aràs adstàre parèntem
- sènsit et hùnc proptèr ferrùm celàre minìstros
- àspectùque suò lacrimàs effùndere cìvis,
- mùta metù 18 terràm genibùs summìssa petèbat.
- nèc miseraè prodèsse in tàli tèmpore quìbat,
- quòd patriò princèps donàrat nòmine règem;
- nàm sublàta virùm manibùs tremibùndaque ad àras
- dèductàst, non ùt sollèmni mòre sacròrum
- pèrfectò possèt clarò comitàri Hymenaèo 19,
- sèd casta ìncestè nubèndi tèmpore in ìpso
- hòstia cònciderèt mactàtu maèsta 20parèntis,
- èxitus ùt classì felìx faustùsque 21 darètur.
- tàntum rèligiò potuìt suadère malòrum.
- Quando la vita degli uomini, sotto gli occhi [di tutti], stava abbattuta
- turpemente a terra, oppressa sotto il peso della religio,
- che mostrava il suo capo dalle regioni del cielo
- incombendo sopra i mortali con il suo orribile aspetto,
- per la prima volta un uomo greco osò
- sollevarle gli occhi contro e per primo andarle contro;
- e né la fama degli dei, né i fulmini, né il cielo con il suo mormorio
- minaccioso lo fermarono, ma anzi incitarono la fiera
- virtù del suo animo, tanto che desiderava per primo rompere
- le strette catene delle porte della natura.
- Dunque la sua vivida forza d’animo vinse e andò
- lontano fuori dalle mura fiammeggianti del mondo
- e percorse tutta l’immensità dell’universo con la mente e con l’animo,
- e da lì ci riporta, vincitore, che cosa possa nascere,
- che cosa non possa, infine per quale ragione ci sia per ciascuno
- un potere delimitato e un termine fissato in profondità.
- Perciò la religio, messa sotto ai piedi, a sua volta
- è schiacciata, e questa vittoria ci rende uguali al cielo.
- A proposito di queste cose, temo ciò, che tu per caso possa pensare
- di avviarti verso i principi di un’empia dottrina e di metterti sulla via
- del crimine. Al contrario, più spesso proprio quella
- religio ha generato azioni criminose e empie.
- In Aulide, ad esempio, l’altare della vergine Trivia
- deturparono vergognosamente con il sangue di Ifigenia
- i condottieri scelti dei Danai, primizie degli eroi.
- Non appena la benda, messa intorno alle sue giovanili trecce,
- le scivolò in ugual misura su ciascuna delle guance,
- e non appena si accorse che il padre triste stava davanti all’altare
- e che vicino a lui i sacerdoti nascondevano la lama
- e che alla sua vista i cittadini versavano lacrime,
- muta dalla paura, era fatta inginocchiare a terra.
- E a lei, misera, in quel momento non poteva essere d’aiuto
- il fatto che per prima avesse dato al re il nome di padre;
- infatti, trasportata dalle mani degli uomini e tremante, all’altare
- fu condotta, non perché, secondo l’abitudine solenne dei rituali,
- potesse in verità essere accompagnata in un sonoro Imeneo,
- ma perché pura, in modo impuro, proprio all’età giusta per le nozze
- cadesse triste vittima sacrificale del padre,
- perché alla flotta fosse concessa una partenza fortunata e fausta.
- A compiere così grandi mali poté persuadere la religio.
1 I successivi “elogi” si trovano negli incipit del terzo (vv. 1-30), del quinto (vv. 1-54) e del sesto (vv. 1-34) libro del De rerum natura.
2 Sui modelli di Lucrezio per l’episodio del sacrificio di Ifigenia e sulla probabile dipendenza da Eschilo si può leggere A. Perutelli, Ifigenia in Lucrezio, «Studi Classici e Orientali» 46, 1 (1998), pp. 193-207.
3 Graius homo mortalis: Epicuro non viene chiamato per nome, ma indicato genericamente come un “graius homo mortalis”; la certezza che il riferimento sia da leggersi proprio in relazione a Epicuro - e non ad altri presocratici come qualcuno ha pensato di fare - è data dal parallelo con gli altri elogi di Epicuro contenuti nei libri III, V e VI, e in particolare a III, 3 dove il filosofo è definito “graiae gentis decus”.
4 minitanti murmure: qui si notano due figure retoriche: l’allitterazione della - m e l’enjambement che spezza e dà rilievo al sintagma.
5 inritat: perfetto sincopato per inritavit (da inrito, as, avi, atum, are, “stimolare, incitare”).
6 primus portarum: un’altra allitterazione, tipica dello stile di Lucrezio.
7 vivida vix […] pervicit: fortissima allitterazione del suono “vi”. “Pervicit” è forma composta del verbo vinco, is, vici, victum, ere e significa “trionfare, domare, vincere completamente”.
8 omne immensum peragravit: secondo la cosmologia epicurea, il cosmo è infinito: l’immagine di Epicuro che riesce con il pensiero a superare le mura fiammeggianti del mondo indica quindi la scoperta dell’immensità dell’universo da parte del filosofo. L’idea che il nostro mondo fosse circondato da una cortina di fuoco purissimo, detto etere, era invece tipica del pensiero orfico e della dottrina pitagorica.
9 mente animoque: in Lucrezio - come si legge bene in III, vv. 136 e seguenti - mens e animus sono due termini spesso accostati per intendere il luogo da cui hanno origine le percezioni sensoriali ed emotive dell’uomo, che ha sede al centro del petto.
10 opteritur: da optero, is, trivi, tritum, ere, “schiacciare, calpestare, annientare”.
11 rearis: da reor, reris, ratus sum, reri, “pensare, ritenere, credere”.
12 te: l’interlocutore di Lucrezio è allo stesso tempo il dedicatario dell’opera, Gaio Memnio, ma anche, in generale, qualsiasi lettore.
13 elementa: come altrove in Lucrezio, l’epiteto di “elementa” va trasferito sul genitivo “rationis”.
14 indugredi: si tratta di una forma arcaica per ingredior, eris, gressus sum, gredi, “entrare, incominciare”.
15 Triviai virginis: la vergine Trivia è la dea Artemide, ricordata qui nella sua funzione di protettrice dei bivi. Si ricordi che il sacrificio di Ifigenia da parte del padre Agamennone, condottiero dei Greci contro Troia, era richiesto, secondo il mito, per placare l’ira di Artemide, la quale aveva causato la bonaccia marina che non permetteva alla flotta degli Achei di partire alla volta di Troia. “Triviai” è un genitivo arcaico, che contribuisce ad innalzare lo stile di tutto il passo, intessuto di richiami (di sapore parodico) al tono “alto” dell’epica.
16 Iphianassai: è il nome greco di Ifigenia.
17 infula:è la benda sacra che veniva messa intorno al capo delle vittime sacrificali.
18 muta metu: si noti l’efficace accostamento dei due termini, molto vicini foneticamente, per descrivere l’orrore che paralizza Ifigenia, ingannata e condotta al sacrificio.
19 Hymenaeo: L’imeneo è il canto intonato in occasione delle nozze; qui Lucrezio sottolinea come il percorso di Ifigenia verso l’altare sia paradossale, perché non ha come fine il rito nuziale che ben si adatterebbe alla giovane età della ragazza (nel mito, viene infatti fatto credere alla sventurata di essere destinata alle nozze con Achille), ma l’empio sacrificio di una vergine. Il concetto è sintetizzato ed enfatizzato dalla iunctura del verso successivo, “casta inceste”, che viene a formare un potente ossimoro.
20 mactatu maesta: allitterazione.
21 felix faustusque: si tratta di una formula convenzionale del lessico augurale, che Lucrezio riprende con chiari intenti sarcastici contro la religione e la morale tradizionali.