Introduzione
Andrea Zanzotto nasce nel 1921 a Pieve di Soligo, un piccolo paese in provincia di Treviso. Il padre è un pittore e decoratore, cattolico e socialista; la famiglia della madre possiede una bottega di calzature. Zanzotto frequenta le scuole magistrali e poi consegue la maturità classica da privatista in un liceo di Treviso. Scrittore e lettore dotato fin dalla tenera età, si iscrive alla facoltà di Lettere di Padova. Si laurea nel 1942 e l’anno successivo viene chiamato alle armi. Dopo l’armistizio torna in Veneto e si unisce alla Resistenza. Nel 1963 ottiene un posto nella scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnerà fino alla metà degli anni Settante. Il 1951 è l’anno del suo libro d’esordio, Dietro il paesaggio, che suscita fin da subito l’interesse della critica. La sua produzione in versi copre più di mezzo secolo: ricordiamo La Beltà (1968), Il galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983), Meteo (1996) e il recente Conglomerati (2009). Zanzotto è anche autore di prose e critico letterario. Dopo una lunga attività artistica e intellettuale, trascorsa perlopiù a Pieve di Soligo, Zanzotto muore nel 2011. È considerato uno dei massimi poeti italiani del secondo Novecento.
Le poesie e la poetica
La ricerca poetica di Zanzotto si può definire come una battaglia combattuta ai confini del linguaggio: Zanzotto inventa infatti una lingua difficile e unica, dove innovazione e tradizione convivono in modo fertile e paradossale. Ci sono due temi fondamentali che ricorrono in tutta la ricerca poetica di Zanzotto: il paesaggio e la lingua. Da un lato, il paesaggio - che sia il paesaggio veneto di Pieve di Soligo, oppure quello devastato e orripilante della psiche, dai sedimenti organici cantati nel Galateo in bosco fino alle altezze allucinate di Fosfeni - il paesaggio è l’interlocutore privilegiato dell’io lirico zanzottiano e gioca un ruolo cruciale dalla prima raccolta del 1951 fino a Conglomerati. Dall’altro lato, la sperimentazione sul linguaggio è al centro della sua esperienza poetica: le raccolte poetiche di Zanzotto perseguono una continua oltranza linguistica, ovvero una ricerca costante del limite del linguaggio stesso, attraverso la negazione dei significati ordinari delle parole e delle norme della comunicazione ma anche delle regole tradizionali del codice poetico. Zanzotto infatti viola e spezza il quotidiano rapporto tra significato e significante per far emergere, nei suoi testi, il significante puro, alla ricerca di una lingua e di una espressione poetica che dica ciò che normalmente non si può esprimere.
Con Dietro il paesaggio (1951), Zanzotto esordisce, mentre il Neorealismo si sta già esaurendo, come una specie di poeta ermetico “fuori tempo massimo” 1. Come dichiarato dal titolo, al centro del libro è il paesaggio naturale (principalmente quello delle terre natali) che però si carica di valori simbolici e metaforici. Il trauma storico ed esistenziale della guerra viene rimosso, e il poeta si rifugia nel paesaggio e nella lingua letteraria che lo esprime. Nonostante gli scorci tipici del Veneto rurale, il paesaggio di Zanzotto tende verso l’astrazione, si compone di emblemi puri che rimandano a un senso ulteriore e misterioso, che stia appunto “dietro” gli elementi naturali. Ecco un esempio, una strofa tratta da Serica, poesia dedicata al baco da seta:
Schiava d’altre stagioni
e della notte caverna di fango
cadde la luna;
dalle dighe che guidano le tenebre
dal musco che occlude le valli
dai rotti cancelli dell’alba
si manifesta e sgorga
acqua cruda di primavera 2.
Lo spazio è rappresentato in modo astratto e antirealistico, attraverso analogie ardite (v. 6: “rotti cancelli dell’alba”) e l’uso dei plurali generalizzanti tipici dell’Ermetismo; da notare anche la potente scansione anaforicadella sintassi(qui ai vv. 4-7, con la ripetizione variata della preposizione articolata), che è un tratto stilistico assai ricorrente in Zanzotto. L’autore è poi poeta abilissimo nell’assimilare le fonti letterarie, che sono mescolate e come “dissolte” con notevole originalità 3. Oltre alla corrente ermetica, specie nella sua versione più estrema (Salvatore Quasimodo o Libero De Libero), attinge al surrealismo europeo (Garcia Lorca, Paul Eluard), senza dimenticare Friedrich Hölderlin e Leopardi. Tra le altre fonti e letture, occorre ricordare anche William Blake, T. S. Eliot e Rainer Maria Rilke.
Un altro libro fondamentale nel percorso di Zanzotto è Vocativo (1957): i testi che raccoglie, scritti tra il 1949 e il 1956, sono quasi tutti posteriori a una grave crisi di nervi che colpì il poeta nel 1950. Il protagonista di Vocativo è appunto un io nevrotico che denuncia e sfida l’inautenticità della Storia. La gelida astrazione del primo libro viene abbandonata in favore di uno stile mosso ed espressionista, in cui l’instabilità del ritmo si accompagna all’introduzione di latinismi e arcaismi 4, ma anche di termini del tutto estranei alla tradizione poetica, come “neon”, “orgasmo” o “conato”. Quest’ultimo ricorre nella poesia Esistere psichicamente, che rende bene l’impatto del nuovo stile sulla costruzione del ritmo e delle figure:
Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d’inferno
degli atomi e il conato
torbido d’alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori 5.
Anche questo testo è un buon esempio delle tecniche tipiche di Zanzotto. Notiamo ancora l’uso insistito dell’iterazione, che struttura la sintassi in una serie vorticosa di riprese anche a distanza (ad esempio il sintagma “da”+ dimostrativo, ripetuto ai vv. 1, 7, 9 e 13). Un altro tratto tipico, stavolta legato al lessico, è l’uso di vocaboli agglutinati attraverso trattino, che opera quasi una specie di violenta fusione semantica (è il caso di “terra-carne”, v.1 e “chiarore-uovo”, v. 21). Ma lo stilema forse più caratteristico e frequente è l’impiego dei richiami fonici: allitterazioni e altre identità foniche strutturano il testo e ne aumentano il valore semantico 6. Nelle raccolte successive questo procedimento verrà ulteriormente radicalizzato. A livello figurale, la poesia si basa sull’identificazione tra paesaggio e corpo, che però viene ridotto alla sua esistenza psichica, segnata dalla nevrosi. Impressionante a tal proposito la fusione di elementi paesistici con immagini che rimandano a sintomi fisici legati al malessere psichico (“sussulti”, v.3; “bava”, v. 4; “conati”, v. 19; “muco”, v. 22).
Con La Beltà (1968) lo sperimentalismo di Zanzotto supera un punto di non ritorno. Il poeta forza il normale rapporto che lega significanti e significati. Molte poesie della raccoltasono costruite da catene associative di significanti puri che proliferano uno dall’altro, in appartente completa autonomia dai valori semantici 7. Stefano Dal Bianco, critico e curatore delle opere di Zanzotto, mette in luce alcune conseguenze stilistiche di questo processo, spiegando che:
L’armamentario delle figure foniche è portato all’incandescenza, organizzando direttamente la produzione del senso. Il procedimento dominante è l’allitterazione 8.
Leggiamo il testo che apre la raccolta, intitolato significativamente Oltranza oltraggio:
Salti saltabecchi friggendo puro-pura
nel vuoto spinto outrè
ti fai più in là
intangibile - tutto sommato -
tutto sommato
tutto
sei più in là
ti vedo nel fondo della mia serachiusascura
ti identifico tra i non i sic i sigh
ti disidentifico
solo no solo sì solo
piena di punte immite frigida
ti fai più in là
e sprofondi e strafai in te sempre più in te 9.
L’io poetico è all’inseguimento di una fantomatica entità femminile, probabilmente la stessa “Beltà”, o la personificazione della poesia. L’entità è sfuggente, si trova “più in là” del soggetto lirico e sfugge alla logica razionale. Vediamo come i versi violano il principio di non-contraddizione, accostando di proposito gli opposti (vv. 8-9: “ti identifico [...] | ti disidentifico”; v. 10: “solo non solo sì”). Oltre le esibite allitterazioni, notiamo un marcato plurilinguismo: il lessico accoglie francesismi (v. 2: “outré”, cioè “eccessivo”), latinismi (v. 9: “sic”; v. 12: “immite” per “crudele”, e “frigida”), neologismi (v. 10: “disidentifico”) e persino un anglicismo tipico dei fumetti (v. 9: “sigh”). La lingua onnivora e sperimentale di Zanzotto accoglie termini e immagini dalle più diverse provenienze: latinismi, stranierismi, dialettismi, aulicismi letterari, termini mutuati dai linguaggi settoriali scientifici e umanistici (come la filosofia o la psicanalisi). Dal punto di vista metrico, La Beltà è decisamente sperimentale. I pochissimi endecasillabi sono irregolari o inseriti nel generale balbettio e sussulto dello stile.
La poesia di Zanzotto risulta incomprensibile se non viene ricondotta alle sue matrici teoriche: la corrente dello Strutturalismo degli anni Sessanta, la filosofia di Martin Heiddeger e il pensiero di Jacques Lacan. Particolarmente importante per la costruzione stilistica e tematica de La Beltà, Lacan è uno psicanalista francese che rilegge Freud e la sua teoria psicoanalitica, integrandolo con numerosi e aggiornati stimoli culturali. Arriva a elaborare e approfondire la teoria della costituzione linguistica dell’inconscio, mostrando come l’uomo, invece di parlare, “è parlato” dal linguaggio. Il linguaggio dell’inconscio è sempre imprendibile e produce associazioni continue di significanti che scivolano senza sosta una nell’altra: La Beltà quindi, oltre a citare direttamente Lacan, tenta di riprodurre nello stile il movimento autonomo del significante.
La ricerca poetica del libro si muove in due direzioni paradossali: da una parte, verso il linguaggio della cultura di massa, criticato da Zanzotto perché inautentico; dall’altra, verso il recupero di una lingua originaria e autentica, che sta prima del significato, simile alla lingua aurorale dei bambini piccoli, che Zanzotto chiama petèl 10. Un codice puro che non subisce la tirannia del senso, in grado di ricollegare verità, linguaggio e poesia.
Dopo La Beltà, Zanzotto procede tra rinnovati sperimentalismi e qualche apertura comunicativa, sempre nel contesto di una poesia elitaria che necessita della critica per essere compresa anche dai lettori più smaliziati. Filò, pubblicato nel 1976, si distingue per l’uso integrale del dialetto veneto (già comparso qua e là da La Beltà in avanti) In esso spiccano due testi commissionati per il film Casanova (1976) di Federico Fellini. Il Galateo in Bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986) compongono quella che l’autore ha definito una “pseudo-trilogia”, basata sulla “insanabile e invivibile lacerazione fra la natura e la storia”, fra la vita biologica e “l’effettiva o presunta validità dei tradizionali codici simbolico-culturali” 11. Un altro importante tema che si affaccia con il tempo è il difficile rapporto con la tecnica, spesso sentita come all’origine di una pericolosa violazione dell’ordine naturale e della perdita di valori autenticamente umani, come il radicamento nel paesaggio. Il corpo a corpo col linguaggio culmina con Conglomerati (2009), il libro dalla costruzione estremamente complessa, ispirata alla Commedia dantesca. Tra tutti i poeti del secondo Novecento, Zanzotto è forse quello che si avvicina di più a Dante: per la vastità dei suoi interessi culturali, e per l’abilità nel farli convergere in una lingua poetica che tende verso l’assoluto, anche se da una prospettiva laica e moderna. Commentando la visione di Dio alla fine del canto XXXIII del Paradiso in un articolo pubblicato nel 2004, Zanzotto parla probabilmente anche di se stesso:
Pare che Dante qui trascinato da una forza abissalmente autonoma della Musa arrivi attraverso la poesia sulla teologia a una «teologia della poesia» percepita come autonomia di un dire che si autotrascende, al di là di realtà e mito, in una perenne apertura sul possibile 12.
Bibliografia:
P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978.
A. Zanzotto, Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993.
A. Zanzotto, Rileggere Dante con gli occhi del suo tempo, «Corriere della Sera», 20 settembre 2004.
U. Motta, La neolingua di Zanzotto, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, a cura di G. Langella e E. Elli, Novara, Interlinea, 2011.
A. Zanzotto, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2011.
1 A. Zanzotto, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2011, p. XIV. L’influsso dell’Ermetismo è ben visibile anche a livello formale: Zanzotto impiega molti stilemi ermetici che il critico Pier Vincenzo Mengaldo, riferendosi al clima cultural-letterario degli anni Cinquanta, ha definito “ormai fuori uso”. Tra questi, ricordiamo l’uso del plurale in senso astratto e generalizzante, l’ellissi degli articoli, l’uso della proposizione “a”con valore semantico ambiguo e il “gioco sfrenato delle analogie” (P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 870).
2 A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 17.
3 Come spiega il critico Stefano Dal Bianco: “Dietro il paesaggio si presenta in effetti come un grande mosaico di citazioni assimilate da una memoria poetica formidabile, che le rimette in circolo fondendole fino e trasfigurandole fino a renderle irriconoscibili sotto il giogo di un’abilità tecnica straordinaria” (Ivi, p. XIV).
4 Un’opera in cui è più evidente il recupero e lo straniamento di un modello letterario classico è ovviamente IX Egloghe del 1962, dove il riferimento sono le Bucoliche virgiliane, trasportate di peso nel mondo contemporaneo con tutte le sue tensioni e le sue nevrosi.
5 Ivi, p. 140.
6 Notiamo l’implicazione fonica di “egro” e “spiraglio” (vv. 11-12), basata sulla ripetizione della consonante r, e il richiamo tra “spiraglio” e “psiche”, basata sull’inversione del nesso consonantico iniziale. Significativa anche l’allitterazione della m al penultimo verso.
7 Stefano Agosti, importante critico che ha seguito da vicino la ricerca poetica di Zanzotto, descrive così questo processo radicale: “Con La Beltà il rapporto significante/significato si rompe. Il significante non è più collegato a un significato, o a molteplici significati possibili, ma si istituisce esso stesso come depositario e produttore di senso” (A. Zanzotto, Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993, pp. 18-19). Non bisogna però estremizzare questa tesi, poiché Zanzotto non scrive in modo automatico, alla maniera dei surrealisti, ma rimane sempre legato a un’intenzione semantica, anche nel testo più oscuro e informale.
8 A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. XXVIII.
9 Ivi, p. 233, vv. 1-14.
10 Secondo Mengaldo, La Beltà “è una catabasi nel sottosuolo indifferenziato e verminoso della lingua, ma nello stesso tempo è il tentativo di risalirne a ritroso la corrente, come l’anguilla montaliana, per ritrovarne una sua scaturigine autentica (qui rappresentata particolarmente dal linguaggio infantile, il petèl): caso speciale di quella «regressione all’afasia» nella quale il poeta slitta per radicale sfiducia nel disvalore e nell’insignificanza del mondo verbalizzato, e che, tuttavia – poiché il mondo è conoscibile solo attraverso la verbalizzazione – coinvolge paradossalmente «un massiccio patrimonio linguistico tradizionale e individuale»” (P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., pp. 873-874).
11 U. Motta, La neolingua di Zanzotto, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, a cura di G. Langella e E. Elli, Novara, Interlinea, 2011, p. 424.
12 A. Zanzotto, Rileggere Dante con gli occhi del suo tempo, «Corriere della Sera», 20 settembre 2004.