Composto nel 1937 ed inserito nella sezione dei Mottetti de Le occasioni, Non recidere, forbice, quel volto è un breve componimento (il mottetto è, per l’appunto, forma tipica della musica sacra polifonica del XIII secolo, che Montale recupera e riutilizza per fini diversi) che pure dice molto di quella stagione poetica successiva agli Ossi di seppia che viene per l’appunto riunita nel volume montaliano del 1939, Le occasioni.
Al centro delle due quartine di questa poesia c’è infatti il problema della memoria soggettiva che - centrale in gran parte della tradizione letteraria del Novecento - Montale interpreta in maniera assai personale e specifica. Per il poeta, che da subito pare implorare una “forbice” di non ridurre in frammenti l’immagine mentale di un “viso” amato (forse quello della Brandeis, cui la raccolta è dedicata), per poterne preservare il pallido ricordo, questo spunto soggettivo è allora ‘occasione’ per un discorso di sapore riflessivo, che si sviluppa in una raffigurazione sintetica ma assai penetrante. Il mondo dei ricordi e degli affetti personali, a causa del tempo che scorre inesorabile, è condannato ad un’irredimibile perdita, ben simbolizzata, oltre che dalla forbice del primo verso, dalla “nebbia di sempre” (v. 4) in cui si perde la preziosa memoria del poeta, e che costituisce un buon esempio dell'uso montaliano del "correlativo oggettivo".
La seconda quartina, spostando apparentemente lo scenario in un giardino dove muore simbolicamente un’acacia, sviluppa in realtà il discorso dei primi quattro versi. In una serie di immagini che quasi ci rimandano agli Ossi di seppia e alle loro immagini privilegiate, la forbice viene più esplicitamente identificata con l’idea di morte (“Un freddo cala... Duro il colpo svetta”, e cioè recide con un colpo secco la vetta), e la cicala, tipico animale della solarità estiva, cede alla “belletta” (v. 8; una sorta di fanghiglia putrida, che riporta alla memoria il settimo canto dell'Inferno di Dante) del mese novembrino, già evocato in chiusura della prima strofa. Tutto il componimento è allora finemente architettato nelle sue riprese e simmetrie; il tono sentenzioso, del resto tipico del mottetto, certifica in chiusura un profondo dolore esistenziale, e soprattutto sintetizza in maniera efficace la prerogativa che Montale vuole assegnare alla propria poesia: e cioè quella di offrire una conoscenza in ‘negativo’ (ovvero a partire dai dati più espliciti del "male di vivere" del poeta) della solitudine intrinseca alla situazione umana.