Introduzione
La lirica di Giovanni Pascoli L’aquilone viene pubblicata nella seconda edizione dei Poemetti, per essere inserita poi nei Primi poemetti. Il titolo della poesia, tanto cara all’autore da venir dedicata a coloro che furono i suoi compagni di collegio ad Urbino, va anche a denominare la sezione della raccolta in cui è contenuta: Il bordone - L’aquilone. Nel testo, composta da ventuno terzine dantesche, il poeta utilizza come pretesto uno stimolo olfattivo, l’odore di viole, per ricordare il passato. In particolare, il ricordo di Pascoli si focalizza su due momenti: il volo degli aquiloni in una giornata ventosa e la morte di un compagno del collegio. Nasce così, nel poeta ormai adulto, un’amara riflessione sulla vita.
L’aquilone: dalla sensazione al ricordo
La lirica L’aquilone comincia con un forte stimolo presente, ovvero il profumo delle viole che al termine dell’inverno tornano a fiorire: questa sensazione (in maniera analoga a quanto accade in Digitale purpurea sempre nei Poemetti) rievoca il tempo passato, che, almeno inizialmente, è una sensazione vaga, seppur descritta con immagini naturali caratterizzata dalla consueta precisione terminologica pascoliana.
Secondo un meccanismo straniante, tra la quarta e la quinta terzina una forte sensazione cromatica - quella delle “bianche ali sospese” (v. 12, cioè gli aquiloni) nel cielo - trasporta il poeta in un momento del proprio passato, che nel ricordo si sovrappone al tempo presente. Pascoli si vede nuovamente ragazzino, quando, in un giorno di vacanza da scuola, lui e i suoi compagni avevano fatto volare gli aquiloni nel cielo ventoso di Urbino. Un altro stimolo, questa volta uditivo, sposta l’immagine con un repentino cambio di scena: le grida dei bambini mentre fanno volare gli aquiloni rimandano alle grida dei compagni di camerata di Pascoli, che il poeta ricorda uno per uno. In particolare lo sguardo si sofferma su un compagno pallido e malato, destinato a una morte prematura. Il poeta, al termine di una vita lunga e costellata di dolori, ammette che è meglio morire giovani.
L’unica potente immagine di dolore arriva nell’ultimo verso, con la descrizione della madre addolorata che pettina i capelli del figlio appena morto. Ma dal dolore sembra trasparire un nuovo rimpianto personale: al poeta non è stata concessa nemmeno la tenerezza consolatoria di una carezza materna.
Per quanto riguarda lo stile, la lirica è costellata da enjambements e dalla presenza di due iperbati che non fanno che dilatare gli endecasillabi e acuire la distanza tra il discorso sintattico e quello rtimico.
Metro: terzine di endecasillabi.
- C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
- anzi d’antico 1: io vivo altrove 2, e sento
- che sono intorno nate le viole.
- Son nate nella selva del convento
- dei cappuccini, tra le morte foglie
- che al ceppo delle quercie agita il vento.
- Si respira una dolce aria che scioglie
- le dure zolle, e visita le chiese
- di campagna, ch’erbose hanno le soglie:
- un’aria d’altro luogo e d’altro mese
- e d’altra vita: un’aria celestina
- che regga molte bianche ali sospese...
- sì, gli aquiloni! È questa una mattina 3
- che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
- tra le siepi di rovo e d’albaspina.
- Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
- d’autunno ancora qualche mazzo rosso
- di bacche, e qualche fior di primavera
- bianco; e sui rami nudi il pettirosso
- saltava e la lucertola il capino
- mostrava tra le foglie aspre del fosso.
- Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
- ventoso: ognuno manda da una balza
- la sua cometa 4 per il ciel turchino.
- Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza
- risale, prende il vento 5; ecco pian piano
- tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.
- S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
- come un fiore che fugga su lo stelo
- esile, e vada a rifiorir lontano.
- S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
- petto del bimbo e l’avida pupilla
- e il viso e il cuore 6, porta tutto in cielo.
- Più su, più su: già come un punto brilla,
- lassù lassù... Ma ecco una ventata
- di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla? 7
- Sono le voci della camerata
- mia: le conosco tutte all’improvviso,
- una dolce, una acuta, una velata...
- A uno a uno tutti vi ravviso,
- o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
- su l’omero il pallor 8 muto del viso.
- Si: dissi sopra te l’orazioni 9,
- e piansi: eppur, felice te 10 che al vento
- non vedesti cader che gli aquiloni!
- Tu eri tutto bianco, io mi rammento:
- solo avevi del rosso nei ginocchi,
- per quel nostro pregar sul pavimento.
- Oh! te felice che chiudesti gli occhi
- persuaso, stringendoti sul cuore
- il più caro dei tuoi cari balocchi!
- Oh! dolcemente, so ben io, si muore
- la sua stringendo fanciullezza al petto 11,
- come i candidi suoi pètali un fiore
- ancora in boccia! O morto giovinetto,
- anch’io presto verrò sotto le zolle,
- là dove dormi placido e soletto...
- Meglio venirci ansante, roseo, molle
- di sudor, come dopo una gioconda
- corsa di gara per salire un colle!
- Meglio venirci con la testa bionda,
- che poi che fredda giacque sul guanciale,
- ti pettinò co’ bei capelli a onda
- tua madre... adagio, per non farti male.
- C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
- anzi di antico: io vivo da un’altra parte, e sento
- che qui intorno sono nate le viole.
- Sono nate nel bosco del convento
- dei cappuccini, sotto le foglie morte che il vento
- fa turbinare intorno ai ceppi delle querce.
- Si respira un’aria tiepida che rende più soffice
- il terreno gelato, e fa visita alle chiese
- di campagna, circondate d’erba fino all’ingresso.
- un’aria che proviene da un altro luogo,
- da un altro mese e da un’altra vita: un’aria primaverile
- che regga molte ali bianche sospese nel cielo…
- sì, gli aquiloni! Questa è una mattina in cui
- non c’è scuola. Siamo usciti tutti quanti
- tra le siepi di rovo e di biancospino.
- Le siepi erano riarse, irte; ma c’era
- ancora qualche mazzo rosso di bacche autunnali,
- e qualche fiore bianco primaverile;
- e il pettirosso saltellava sui rami nudi
- e la lucertola mostrava il capino
- tra le foglie secche del fossato.
- Ora siamo fermi: abbiamo di fronte Urbino
- lambita dal vento: ognuno fa volare da un salto
- del terreno la sua cometa per il cielo azzurro.
- Ed ecco che ondeggia, oscilla, urta, sbalza,
- risale, prende il vento; ecco che piano piano
- si innalza in mezzo alle grida dei bambini.
- Si innalza; e tira il filo dalla mano dei bambini,
- come un fiore che fugge dal suo stelo
- esile, per andare a fiorire di nuovo più lontano.
- Si innalza; e porta in cielo i piedi trepidanti
- del bimbo, e il petto che respira profondamente
- e gli occhi avidi e il viso e il cuore.
- Più su, più su: è già un punto lontano,
- lassù, lassù… Ma ecco un colpo di vento
- di traverso, ecco un grido acuto… - Chi strilla?
- Sono le voci della mia camerata:
- le riconosco tutte improvvisamente,
- una dolce, una acuta, una tenue…
- A uno a uno vi ricordo tutti,
- o miei compagni!! e te, sì, che abbandoni
- sul braccio il viso pallido e smunto.
- Sì: pronunciai orazioni su di te,
- e piansi: ma sei beato tu che l’unica cosa che hai
- visto cadere al vento sono gli aquiloni!
- Tu eri completamente pallido, me lo ricordo:
- di rosso avevi solo i ginocchi,
- perché pregavamo ingonicchiati sul pavimento.
- Oh! Felice sei tu che hai chiuso gli occhi
- sereno, stringendo sul cuore
- il più prezioso tra i tuoi amati giochi!
- Oh! Si muore dolcemente, lo so bene io,
- stringendo la propria fanciullezza al petto,
- come i candidi petali stringe a sé un fiore
- non ancora sbocciato! O morto da giovane,
- anche io presto arriverò sottoterra,
- là dove dormi sereno e solo…
- Meglio venirci ansando, roseo, bagnato
- dal sudore, come dopo una divertente
- gara di corsa per salire su una collina.
- Meglio venirci con la testa coperta da capelli biondi,
- che, dopo che giacque fredda sul cuscino,
- tua madre pettinò a onde coni bei capelli
- …delicatamente, per non farti male.
1 d’antico: ovvero che riporta alla memoria qualcosa di lontano (nello specifico il periodo passato da ragazzo al collegio degli Scolopi a Urbino). Si veda come L’aquilone si apra su una nota di nostalgia malinconica del passato.
2 altrove: Pascoli nel periodo della stesura della lirica è infatti professore all’università di Messina: alla lontananza nel tempo si affianca quello nello spazio, anche se presto il ricordo annullerà ogni barriera.
3 Il passaggio immediato al tempo presente indica che il poeta sta rivivendo “in diretta” il ricordo lontano nel tempo: la distanza tra passato e presente è qui di fatto annullata.
4 cometa: l’aquilone che attraversa il cielo seguito dalla sua coda di stoffa ricorda una stella cometa.
5 La serie di verbi in asindeto traduce sulla pagina i movimenti rapidi dell’aquilone, cui si collega la felicità del ricordo infantile.
6 e i piedi...e il cuore: accumulazione per polisindeto.
7 Chi strilla: la scena onirica muta improvvisamente per una sensazione uditiva (le strilla dei bambini) che sposta l’attenzione del poeta dall’aquilone al tema della morte del giovane compagno. La funzione evocativa dei suoni e dei rumori è sempre centrale in Pascoli: si ricordino ad esempio L’assiuolo o La cavalla storna.
8 pallor: Pascoli introduce la figura del compagno morto, che subito si caratterizza per la salute cagionevole.
9 orazioni: le orazioni pronunciate durante la veglia funebre. Il tema della morte è costante nella poesia pascoliana.
10 felice te: il poeta pensa che poter morire giovani sia una fortuna. C’è un chiaro riferimento ai Sepolcri di Ugo Foscolo (vv. 213-214: “Felice te che il regno ampio de’ venti, | Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi”).
11 Il forte iperbato spezza l’ordine naturale della frase e sottolinea il patetismo di questo passo.