Introduzione
Nel tredicesimo canto dell’Inferno Dante e Virgilio si confrontano con un particolare tipo di violenza punita dalla legge di Dio: il suicidio. Nella boscaglia che si stende di fronte ai loro occhi, Dante incontra Pier delle Vigne (alto funzionario della corte di Federico II) e riceve una spiegazione sulla condizione di questi dannati dopo il Giudizio Universale. Completa il canto lo sbranamento di alcuni scialacquatori da parte di alcuni cani feroci.
Riassunto
All’incipit del tredicesimo canto dell’Inferno, ci troviamo nel secondo girone del settimo cerchio, dove viene punito il peccato di suicidio. Lo scenario è di per sé orripilante: una boscaglia fittissima e contorta, che quasi impedisce il cammino a Dante e Virgilio, e che non ha paragoni nel mondo reale (vv. 4-6: “Non fronda verde, ma di color fosco; | non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; | non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco”); per di più, questa selva è nido abituale delle “brutte Arpie” (v. 10) di virgiliana memoria. Il paesaggio è insomma presagio di ciò che il poeta-pellegrino vedrà di qui a poco, con suo grandissimo stupore.
Dante infatti ode attorno a sé suoni lamentosi, apparentemente umani, ma non sa spiegarsene la provenienza (vv. 22-24: “Io sentia d'ogne parte trarre guai | e non vedea persona che 'l facesse; | per ch'io tutto smarrito m'arrestai”), e il verso 25 (“Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse”), tutto costruito sul verbo “credere”, vuole appunto spiegare il suo disorientamento. Arriva in soccorso Virgilio, che invita il discepolo a spezzare “qualche fraschetta” (v. 29) di uno degli alberi intorno a loro: prodigiosamente (e con una notevole invenzione narrativa), dal ramo spezzato esce una voce umana, mista a sangue, che accusa aspramente Dante del dolore arrecatogli. Il poeta è terrorizzato, ma sempre Virgilio, che già ha descritto una scena simile nel terzo canto dell’Eneide presentando la figura di Polidoro, lo invita a non interrompere la conversazione. L’anima dannata allora si presenta come Pier delle Vigne, alto dignitario della corte di Federico II di Svevia presso la quale era fiorita la scuola sicilana. Pier delle Vigne è poi caduto poi in disgrazia (così ci dice lui stesso) per l’invidia degli altri membri della corte, fatto che l’ha infine portato al suicidio.
Egli rammenta allora con nostalgia la vita terrena ch’egli stesso s’è tolto (vv. 58-61: “Io son colui che tenni ambo le chiavi | del cor di Federigo, e che le volsi, | serrando e diserrando, sì soavi, | che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi”) ma non manca di sottolineare la propria correttezza (vv. 59-60: “fede portai al glorïoso offizio, | tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi”). Il tono del ricordo - stilisticamente elaborato come è giusto che sia per la lingua di un uomo di elevata cultura e rango sociale come Pier delle Vigne - combina malinconia e rivendicazione puntigliosa, e si conclude in una terzina tutta giocata sulle antitesi:
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto 1
A ciò segue la richiesta a Dante di restituirgli la giusta memoria una volta tornato nel mondo reale. Pier delle Vigne spiega poi (su invito di Virgilio, dato che Dante è troppo turbato è per parlare...) come, in accordo con la legge del contrappasso, sia Minosse a destinare a questa landa desolata le anime dei suicidi: neanche nel giorno del Giudizio Universale essi potranno riappropriarsi del corpo materiale da cui hanno voluto separarsi contro il volere divino.
Mentre ancora Dante e Virgilio sono presso l’arbusto, irrompono in scena due uomini, braccati da “nere cagne, bramose e correnti | come veltri ch'uscisser di catena” (vv. 125-126): queste fanno scempio di uno dei due fuggitivi (Iacopo da Sant’Andrea, emblema degli scialacquatori, e cioè dei violenti contro i propri beni), e pure di un cespuglio in cui egli aveva cercato invano rifugio. Il canto, dominato dalla figura dolente di Pier delle Vigne e dallo scenario orrorifico della loro punizione, si chiude con un’ennesima nota cupa: a parlare per ultimo è un fiorentino, impiccatosi nella propria casa (v. 151: “Io fei gibetto a me de le mie case”).
Tematiche e personaggi
Federico II e la corte siciliana
Federico II di Hohenstaufen (1194-1250) fu re di Sicilia dal 1198 al 1250; in questo periodo la corte siciliana fu un punto di riferimento sia come centro di potere politico (Federico si impagnò nella modernizzazione e nella buona amministrazione del regno, circondandosi di funzionari validi come Pier delle Vigne, e contrapponendosi al potere della Chiesa fino a subire la scomunica) sia come punto di incontro tra la tradizione di cultura classica (greco-latina), romanza, ebraica ed araba 2. E nel raffinato ambiente di questa corte (non privo di aspetti cupi e problematici, come dimostra il suicidio di Pier delle Vigne) si sviluppa, tra 1230 e 1250, la prima “scuola” poetica in volgare della nostra storia letteraria. La Scuola siciliana svolge infatti un fondamentale compito nell’importare temi ed argomenti della lirica amorosa dalla poesia provenzale in lingua d’oc, utilizzando una lingua (il siciliano colto ed “illustre”) che possa idealmente porsi come modello di riferimento. L’esperienza dei Siciliani, per quanto riguarda metrica e stile (basti pensare alla questione dell’invenzione del sonetto, attribuita a Jacopo da Lentini), sarà poi fondamentale per i primi rimatori toscani (come Guittone D’Arezzo o Bonagiunta Orbicciani) e poi per lo Stilnovo.
Il tono dell’episodio di Pier delle Vigne (che suscita la sua pietà, pur senza sfuggire alla condanna del credente) è ulteriormente sottolineato dalle immagini su cui si chiude il canto: la “caccia infernale” - un elemento tipico delle narrazioni medievali, e che ritornerà anche, con tutt’altro accento, nella novella di Boccaccio Nastagio degli Onesti - e la macabra conclusione del suicida (v. 151) riportano l’attenzione sui peccati della città di Firenze.