Introduzione
Lavandare, poesia pascoliana inserita nella terza edizione di Myricae (1894), è un testo assai indicativo per mettere in luce sia alcune costanti della poetica del suo autore sia l’evoluzione del gusto e dello stile della raccolta, che ne 1894 arriva a raccogliere ben centosedici testi, rispetto ai ventidue originari.
Il madrigale presenta un breve scorcio di campagna, di cui l’occhio del poeta coglie soprattutto dettagli visivi ed uditivi, che compongono una visione inedita e straniante, la quale serve a cogliere un tratto psicologico (la solitudine di una donna e il dolore del poeta stesso).
Analisi
Lavandare è una poesia essenzialmente descrittiva, che di fronte ad un paesaggio quasi immobile, focalizza alcuni dettagli che acquistano un rilievo particolare. In tal senso, va innanzitutto sottolineata la scelta della forma del madrigale, un metro di origine popolare, dallo schema abbastanza definito (un numero variabile di terzine cui seguono dei distici, in endecasillabi o settenari: in questo caso due terzine e due distici, tutti endecasillabi) e di argomento campagnolo o amoroso.
Da un lato abbiamo quindi il rispetto e il recupero della tradizione letteraria, nei confronti della quale Pascoli è sempre molto scrupoloso, mentre dall’altro si può osservare, a più livelli, la novità della poesia pascoliana. Innazitutto lo schema metrico e rimico del madrigale è movimentato da rime interne (che coinvolgono termini-chiave per l’interpretazione del testo: “dimenticato - cadenzato”, vv. 3-4; “sciabordare - lavandare”, v. 5), dal’uso dell’assonanza al posto della rima (“frasca - rimasta”, vv. 7-9) e dall’enjambement (vv. 2-3: “pare | dimenticato”, che pone in particolare rilievo l’impressione di oblio che viene associata all’aratro sperduto in mezzo al campo).
Pascoli distribuisce con precisione nel testo le sensazioni evocate in lui dal quadro che contempla: nella prima terzina prevalgono i colori, secondo una sfumatura tra “mezzo grigio” e “mezzo nero” (v. 1) che viene velata dalla nebbia (“vapor leggero”, v. 3) che si alza alla mattina dai campi. La sensazione, restituita come attraverso un quadro impressionista o dei macchiaioli, è allora quella di immobilità e desolazione, simboleggiata dall’aratro “dimenticato” (v. 3) in mezzo ad un campo solitario. La seconda terzina privilegia invece l’udito, dato che il lavoro costante e monotono delle “lavandare” (v. 5) viene evocato attraverso il fonosimbolismo del verbo “sciabordare” (v. 5) e dei “tonfi spessi” (v. 6), che riproducono con una sinestesia il lavaggio dei panni nell’acqua.
Questi suoni e rumori sembrano giungere da lontano, mescolati alle “lunghe cantilene” che accompagnano le operazioni di lavaggio: e con scelta molto originale (non segnalata neanche sul piano tipografico) Pascoli inserisce nei distici proprio il testo del canto popolare intonato dalle donne. Le sensazioni coloristico-uditive delle due terzine hanno così preparato questo passaggio di tipo intuitivo-analogico, che pare apparentemente scollegato rispetto al quadro agreste dei versi precedenti. In realtà, il poeta è partito dalla descrizione della campagna per preparare la rivelazione epifanica delle ultime righe, che indicano la sotterranea corrispondenza tra la solitudine dell’aratro e quella di una donna, protagonista della canzone, che confessa di attendere invano chi ancora non torna. Il senso di tristezza e il dolore per la perdita degli affetti - elementi connaturati alla poetica del fanciullino e all'omicidio del padre, come indicato anche in testi quali X Agosto e La cavalla storna - diventano così le chiavi di lettura anche di Lavandare.
Lavandare e il mondo della campagna in Myricae
Se allora Lavandare sfrutta e rielabora la struttura del madrigale e la sua tematica agresta ed amorosa per alludere a dei tormenti personali (del poeta stesso o della donna abbandonata come “l’aratro in mezzo alla maggese”, v. 10), bisogna considerare anche il significato della collocazione del testo nella terza edizione della raccolta Myricae nel 1894; a partire da questo momento, come è stato notato dalla critica, il poeta aumenta l’importanza del tema della morte nei suoi testi. Nella Prefazione l’equivalenza tra la propria poesia e un canto funebre è abbastanza esplicita, associata alla suggestionante idea che proprio nella natura si possa trovare pace e protezione dalle sofferenze del mondo:
Rimangano rimangano questi canti su la tomba di mio padre!... Sono frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. [...] Ma l’uomo che da quel nero ha oscurata la vita, ti chiama a benedire la vita, che è bella, tutta bella; cioè, sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e a gli altri. [...] Ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario dànno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti 1. Oh! lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Così in Myricae cominciano ad abbondare i toni del patetismo intimista poi tipico di certa poesia pascoliana; i lutti e i dolori personali dell’autore si traducono in atteggiamenti malinconici e sofferenti, che puntano a suscitare nel lettore compassione o commozione. In tal senso, Pascoli si conquista così il successo (anche prima di Italy o della retorica nazionalistica de La grande proletaria si è mossa) presso un pubblico piccolo e medio borghese, che vede in lui il poeta della nuova Italia, capace di celebrare e cantare il “mondo perduto” della campagna e degli affetti puri e semplici 2, come dimostrano, oltre a Myricae, anche i Canti di Castelvecchio.
1 Chiaro qui il rimando alle posizioni di Leopardi sulla Natura, espresse ad esempio nel Dialogo della Natura e di un Islandese o in canzoni come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
2 Per questa lettura si veda il saggio di Gianfranco Contini intitolato Il linguaggio di Pascoli (1955) e contenuto in Varianti e altra linguistica (Torino, Einaudi, 1970). Si può aggiungere che il successo di Pascoli è dovuto anche ad un attento equilibrio tra tradizione ed innovazione: da un lato, in Lavandare, abbiamo il ricorso all’analogia simbolista e un’epifania conclusiva che quasi anticipa l’analogo procedimento di James Joyce, dall’altro c’è la rappresentazione di un mondo di Natura trasfigurato dal “fanciullino”, e radicalmente distante (per citare un autore praticamente contemporaneo di Pascoli) dalle dure ed impassibili leggi socio-economiche delle novelle e dei romanzi di Giovanni Verga.