La storia de Il fu Mattia Pascal è narrata in prima persona dal protagonista (si tratta cioè di una narrazione omodiegetica a focalizzazione interna), che si qualifica come “fu” in quanto figura che riesuma la propria vicenda di “morto in vita” privo di identità e ruolo sociale in seguito ad una circostanza fortuita ed imprevista. Mattia, appunto a posteriori, ripercorre il proprio “caso [...] assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo” 1. Il narratore avvia il proprio racconto - o piuttosto la scrittura di esso, all’interno della finzione romanzesca progettata da Pirandello; e sarà bene separare sin da subito autore e narratore delle vicende - su consiglio del “reverendo amico don Eligio Pellegrinotto”; al quale, in una battuta contenuta nella Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa al testo, il fu Mattia Pascal così si rivolge: “Eh, mio reverendo amico, [...] non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo” 2. Non sembra, Mattia Pascal, neppure avere particolare interesse per lo stile secondo cui condurre il proprio racconto; sollecitato infatti dallo stesso don Eligio a rifarsi a modelli letterari per via del “loro particolar sapore”, egli afferma: “io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me” 3. Benché sin da subito il fu Mattia si riveli allora assai poco incline a fare seguire ai propri propositi o ai propri convincimenti fatti che siano con essi in rapporto di coerenza, egli si fa narratore 4. Come lettori, siamo dunque affidati alle sue mani, che non sembrano particolarmente sicure, o desiderose di esserlo. Egli, il narratore, scrive per "distrazione" e, secondo la concezione pirandelliana sottesa al romanzo, non c’è un senso stabile nelle cose, nemmeno nella scrittura.
Ciò che avvicina Il fu Mattia Pascal ad altri romanzi del Novecento (su tutti La coscienza di Zeno di Italo Svevo) e che impone al suo lettore lo sforzo di “stare in guardia”, è il fatto che, di fronte a una storia che revoca ogni possibile certezza esistenziale, viene posta in dubbio l’affidabilità stessa del narratore che racconta la propria avventura. Nel Fu Mattia Pascal, Pirandello affronta il tema dell’insussistenza di un’identità composta, inequivocabile e fissa dell’uomo; tema che si rivela in tutta la sua forza nel finale, in cui al protagonista non resta che essere, appunto, il fu Mattia Pascal, dopo avere assecondato la notizia della propria morte ed avere simulato quella di Adriano Meis, il personaggio attraverso il quale aveva cercato di vivere una nuova e più libera esistenza. A un primo livello di analisi va da sé che dal punto di vista della macchina romanzesca la scelta dell’autore cada su un narratore privo di un punto di vista saldo, organico e omnicomprensivo. La voce narrante de Il fu Mattia Pascal condivide dunque i caratteri di provvisorietà, precarietà, instabilità propri della realtà raccontata. È in fin dei conti una storia di equivoci, simulazioni, falsità, menzogne quella di Mattia e del suo “strano caso”. I personaggi mentono, dissimulano, o recitano (come se fossero a teatro...): per primo quell’Adriano Meis che vive in panni non veramente propri. Il narratore dà esplicitamente conto di questa situazione che lo tocca in prima persona:
abbiamo discusso a lungo insieme [con don Eligio] su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare. 5
Se ne potrebbe concludere che lo stesso personaggio di Mattia/Meis subisca lo svolgersi di una realtà imprevedibile e ineluttabile, come la voce narrante tende a puntualizzare in maniera zelante (tanto da rendersi sospetta nella sua scrupolosità), commentando i fatti della storia:
Il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss’anche debolissime, le fila recise, a che era valso? Ecco: s’erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più in me. 6
È come se, attraverso simili dichiarazioni di impotenza e professioni di umiltà, il narratore cercasse di giustificare e al tempo stesso imporre il proprio punto di vista, per quanto parziale, sulla realtà della storia. Punto di vista che però l’autore reale Luigi Pirandello – attraverso la costruzione del testo, che permette al lettore di incrociare parole del narratore e fatti della storia – vuole rivelarci inattendibile. Lo studioso Seymour Chatman, prendendo a prestito la definizione “narratore inattendibile” dal collega Wayne C. Booth, la definisce come quella situazione in cui:
i suoi valori divergono notevolmente da quelli dell’autore implicito; cioè che il resto della narrativa [...] è in conflitto con la presentazione del narratore, e noi sospettiamo della sua sincerità o della sua competenza. 7
Se per “autore implicito” (appunto nella formulazione data da Booth nel suo Retorica della narrativa) si può intendere l’idea e l’immagine di autore che ci facciamo leggendo un’opera letteraria (e cioè il suo sistema di valori ideologici, etico-morali, culturali ed estetici e così via), nel momento in cui ci accorgiamo che un narratore, che detiene il fondamentale privilegio della parola, si discosta molto da questi parametri, allora è evidente che il principio del doppio, intrinseco nella poetica delle maschere pirandelliane, si può applicare anche all’atto stesso della narrazione. Qualcosa di più, dunque, di una voce e di una prospettiva sugli eventi che non possono dominare un reale così incerto e instabile; quella de Il fu Mattia Pascal, è una voce narrante sospetta di menzogna. Sia chiaro: per deliberata volontà dell’autore che, in questo modo, rende ancora più difficile e complesso – ma per questo più incisivo ed efficace – il dialogo con il lettore e l'immersione nel suo mondo romanzesco. L’impossibilità di comprendere e di determinare il reale si rivela, nel corso del romanzo, anche un potente alibi per il narratore. Ad esempio, quando Mattia, nella prima parte del romanzo, si avvicina a Romilda con il dichiarato intento di fare da ambasciatore dell’innamorato e timido Pomino. Sarà lui, invece, ad unirsi alla donna, giustificando come segue il proprio comportamento:
Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che colpa ho io se Romilda, invece d’innamorarsi di Pomino, s’innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? [...] Avrei dovuto, è vero badare al fatto [...] che poteva non esser senza ragione ch’ella mi ricevesse soltanto di mattina. Ma chi ci badava? 8
La voce narrante insiste dunque sull’assoluta mancanza di intenzionalità rispetto a quanto avvenuto, mentre il lettore può ben intendere che Romilda rappresentasse per Mattia più un obiettivo proprio, che non la semplice destinataria delle ambascerie per conto di Pomino. È dunque tutt’altro che limpida la posizione della voce di Mattia Pascal narratore rispetto alla materia della storia. Talvolta imbrigliata in una drammatica e quasi disperata dinamica di autoconvincimento (“La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell’essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita”, p. 422), la voce narrante rivela altrove tutta la sua ambiguità. Il fenomeno è particolarmente visibile nel racconto dell’esperienza del gioco d’azzardo a Montecarlo:
Ricordo che io, dopo aver letto il titolo d’uno di quegli opuscoli: Méthode pour gagner à la roulette, mi allontanai dalla bottega con un sorriso sdegnoso e di commiserazione. Ma, fatti pochi passi, tornai indietro, e (per curiosità, via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di commiserazione su le labbra, entrai nella bottega e comprai quell’opuscolo 9
È in particolare la precisazione tra parentesi a mettere sull’avviso il lettore rispetto alla traballante affidabilità del narratore. Lo stesso che, riferendo del proprio ingresso alla sala da gioco, dove si sarebbe lasciato prendere la mano dal turbinio delle puntate e delle vincite, assicura: “m’accostai al primo tavoliere, ma senza intenzione di giocare” 10. Anche quando sembra affacciarsi qualche scrupolo nei confronti dello sconosciuto rinvenuto cadavere nella Stìa e scambiato per quello di Mattia (“un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici”), il narratore finisce per riaffermare la propria autoassolutoria verità: “Ma poi pensai che quel pover’uomo era morto non certo per causa mia” 11. Una modalità di organizzazione del racconto non lineare, ma condotta quasi a strappi, con ampio impiego di frasi avversative. Una struttura retorica secondo cui l’autore dà forma alle parole del suo narratore, che si avvicina significativamente a quella delle parole del personaggio Pinocchio di Collodi: sempre disposto a fare buoni propositi, ma poi altrettanto rapido nel darsi una buona ragione per trasgredirli. L’inaffidabilità del nostro Mattia (o quantomeno una sua parzialità nel resoconto della sua vita da “fu”...) si palesa anche quando in scena c’è uno dei più trasparenti alter ego della figura dell’autore pirandelliano, ovvero il personaggio di Anselmo Paleari, cui Pirandello affida l’esposizione della parte filosofica del romanzo (quale la "lanterninosofia"). Qui contenuti e concetti espressi dal personaggio si avvicinano, fino a incarnarli, quelli del letterato siciliano (si pensi, ad esempio, al discorso sullo “strappo nel cielo di carta”). Mattia Pascal non comprende questi discorsi, che considera stramberie, e dilata così la distanza tra le due prospettive.
È questo - quello dell’inattendibilità, della pluricità dei punti di vista e delle interpretazioni e, in sostanza, della finzione che connota ogni gesto “sociale”, come quello del narrare - uno dei caratteri più profondi de Il fu Mattia Pascal, il romanzo in cui Pirandello traccia la propria concezione di una realtà instabile e relativa, così come instabile e relativa è l’identità degli uomini, non persone ma maschere. Attraverso la tecnica della narrazione inattendibile, l’autore non si limita a descrivere questa condizione; ma la mette in atto, la svolge sotto gli occhi del lettore, che si trova così stretto nella rete di illusioni e di finzioni di una delle grandi opere fondative della letteratura del Novecento.
Bibliografia essenziale:
- W. C. Booth, Retorica della narrativa (1961), Firenze, La Nuova Italia, 1996.
- S. Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981.
- G. Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), Torino, Einaudi, 1976.
- H. Grosser, Narrativa, Milano, Principato, 1985.
1 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1975, vol. I, p. 320.
2 Ivi, p. 322.
3 Ibidem.
4 Ivi, p. 325: “ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie".
5 Ivi, p. 577.
6 Ivi, p. 511.
7 Seymour Chatman, Storia e discorso, Parma, Nuova Pratiche Editrice, 1998, p. 156.
8 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1975, vol. I, p. 348.
9 Ivi, p. 373.
10 Ivi, p. 381.
11 Ivi, p. 403.