Nel penultimo movimento di Mediterraneo ecco che l'io lirico, incapace di staccarsi dal mare, si getta in un lamento che proprio esso ha per oggetto. Come se fosse in riva al mare e, dopo tutto il poemetto (di cui il movimento centrale, Giunge a volte repente, è lo snodo fondamentale), volesse ancora unirsi ad esso, il protagonista rimpiange la propria vita, considerandola irrilevante, specialmente se confrontata con la vastità del mare.
In particolare, l'io lirico considera la propria poesia, giungendo qui ad una considerazione metaletteraria. Sin dal primo verso, infatti, si parla del “ritmo stento”, fortemente contrapposto al “vaneggiamento” (cioè il “delirio” della lirica precedente, Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale) del mare. Questo diventa l'esempio migliore da imitare, la vera fonte di vita da cui la poesia dovrebbe attingere. Nel caso contrario, infatti, altro non si ottiene che un “balbo parlare”, di cui l'io lirico avverte la notevole storpiatura quando lo confronta, cercando di accordarlo come uno strumento musicale, al suono del mare. La mancanza delle “salmastre parole” nella poesia dell'io lirico conferma l'attimo sempre agonizzato e mai arrivato: l'unione panica, “in cui natura ed arte si confondono”.
Come a suo tempo Corazzini, l'io lirico grida la crepuscolare fine della sua fanciullezza disillusa ed eterna, che ora deve confrontarsi con il presente: le “lettere fruste | dei dizionari” e la “lamentosa letteratura” sono i prodotti della sua vita storpia, non realizzata come egli voleva. La sua poesia, addirittura, viene paragonata al lavoro delle prostitute, oppure abbassata e svilita perché offerta alla mercé degli “studenti canaglie”, i quali soltanto saranno in grado di scrivere “versi veri”. Ancora dinnanzi al mare, infine, l'io lirico rimpiange l'unione mancata, percependo con forte melancolia la presenza del colosso. Come per riscattarsi, il poeta prova addirittura ad ipotizzare mentalmente l'attimo perduto: “m'abbandonano a prova i miei pensieri”, e subito sente il suo corpo e la sua mente liberi, perdendo ogni sensazione e ogni sentore della finitudine.
Metro: ventiquattro versi in cui l’endecasillabo domina, comunque alternato a versi brevi, di cui principalmente ottonari e novenari. Il lamento prende qui la forma del rimpianto, suggerito dalla brevità dei versi che, spezzati dai frequenti enjambements, sembrano esprimere - sulla scorta del congiuntivo ottativo iniziale - un certo rimorso. Il tessuto fonico è a volte fonosimbolico; molto evidenti sono le rime, qui sicuramente più evideti rispetto alle precedenti liriche.
- Potessi almeno costringere
- in questo mio ritmo stento 1
- qualche poco del tuo vaneggiamento 2;
- dato mi fosse accordare
- alle tue voci il mio balbo parlare 3,
- per gridar meglio la mia malinconia
- di fanciullo invecchiato che non doveva pensare 4.
- Ed invece non ho che le lettere fruste
- dei dizionari, e l'oscura
- voce che amore detta s'affioca 5,
- si fa lamentosa letteratura 6.
- Non ho che queste parole
- che come donne pubblicate
- s'offrono a chi le richiede;
- non ho che queste frasi stancate
- che potranno rubarmi anche domani
- gli studenti canaglie in versi veri 7.
- Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
- azzurra l'ombra nuova 8.
- M'abbandonano a prova i miei pensieri 9.
- Sensi non ho; né senso. Non ho limite 10.
- Se solo potessi imitare
- in questo mio ritmo lento e storpio
- almeno un po' del tuo moto fragoroso;
- se solo mi fosse permesso armonizzare
- con le tue voci la mia, balbettante: -
- io che sognavo di copiare le tue
- parole salmastre
- in cui natura ed arte si uniscono e non si riconoscono
- per esprimere a gran voce e bene la mia malinconia
- di ragazzo invecchiato che non doveva pensare.
- E invece ho soltanto le lettere usurate
- dei dizionari, e l'ombrosa
- voce che l'amore fa scrivere va spegnendosi,
- diventa letteratura piena di lamenti.
- Non ho altro se non queste parole
- che come donne di pubblico utilizzo
- si offrono a chiunque ne abbia bisogno;
- non ho altro se non queste frasi stanche
- che già domani potranno rubarmi
- gli studenti birbanti in versi veri.
- Ed il tuo rombo cresce, e diventa più grande
- l'ombra, nuova e azzurra.
- Per provare, i miei pensieri mi abbandonano.
- Non ho più sensi, né senso. Non ho più limite.
1 Stento: sin dal primo verso l'io lirico palesa l'asperità della sua condanna, vale a dire la sua finitudine, fortemente opposta alla “vastità” del mare. Il verbo “costringere”, sulla linea dell’allitterazione probabilmente fonosimbolica della /t/ (che imita forse un respiro tronco e straziato) indica infatti una riduzione notevole, tra l'altro impossibile perché espressa con il congiuntivo imperfetto (che dà un forte tono di rimpianto) e aggravata da “almeno”. Il “ritmo stento”, infine, è la definizione che viene data della propria poesia, descritta come storpia, dall'andamento negativo (così come è la “storta sillaba” di Non chiederci la parola, di cui si richiama l’impossibilità comunicativa).
2 Vaneggiamento: il “vaneggiamento”, abile ripresa dal lessico letterario italiano, indica la potenza del mare e la confusione che esso produce quando si muove, la quale ha comunque una logica di fondo alle orecchie dell'io lirico, che vorrebbe imitarla. Il mare resta quindi un motivo di ammirazione e fa valere, ancora una volta in un processo personificatorio, la sua forza di attrazione.
3 Parlare: la condizione linguistica dell'io lirico è, coerentemente alla connotazione della lirica, volutamente misera: “balbo” può infatti indicare sia la difficoltà nel parlare, nell'articolare le parole, sia la pochezza della parola (secondo l'etimologia latina), sicuramente opposta al “vaneggiamento” del mare. La rima baciata, poi, richiama forse, in chiave metapoetica, il gesto stesso dell’ “accordare”, che il poeta sente di non riuscire a praticare se non in maniera scialba.[/fb]: -
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono[fn]Confondono: quasi richiamando l'esempio della cattedrale sommersa di Ho sostato talvolta nelle grotte, l'io lirico allude al connubio dannunziano e baudelairiano di arte e natura, la cui identità è anche fortemente romantica. La sua stessa poesia, poi, dovrebbe e vorrebbe essere proprio questo: il lamento della lirica attuale racconta il rimpianto di non poter ridurre in poesia la perfezione del mare, di non divenire quindi un tutt'uno con essa, non riuscendo pertanto ad esprimerla. Da notare, alla luce di ciò, le “salmastre parole”, le quali metaforicamente segnano l'unione tra mare e poesia.
4 Pensare: da notare è il forte spunto crepuscolare che questi due versi mostrano: il “fanciullo invecchiato”, disadattato del suo tempo che rimpiange il passato scorso troppo in fretta, la “malinconia”, sentimento di disappartenenza che spinge al ricordo nostalgico, e il rifiuto a pensare, utile ad evitare la conoscenza-sofferenza, sono la trappola entro cui l'io lirico si sente costretto, chiaramente opposta al sentimento liberatorio del mare.
5 S’affioca: ecco la forte opposizione, la quale riporta la lirica all'amaro presente. La negazione inclusiva (“non ho che”) è utile ad esprimere la miseria del poeta, il quale inizia qui il compianto della propria produzione poetica. Da notare è anche l'asprezza con cui l'io lirico la descrive: le “lettere fruste / dei dizionari” e l'“oscura voce” rappresentano una condizione di forte esaurimento, di stanchezza e mancanza di originalità.
6 Letteratura: questa definizione, che Montale regala a se stesso, segna un momento metaletterario: la “lamentosa letteratura” è infatti sia la lirica attualmente analizzata sia la produzione stessa di Montale, il quale condanna la propria opera e la etichetta come negativa ed inutile. In altre parole, la definizione segna una rimpianto elegiaco della poesia stessa.
7 Versi veri: da notare è la pochezza che caratterizza, anche linguisticamente, il presente dell'io lirico. La negazione inclusiva (mutuata da Non chiederci la parola), ripetuta e ripresa dai versi precedenti, serve ad aumentare l'effetto di miseria del presente, aggravato ulteriormente dai due esiti della poesia. Diventando importanti, quindi, sia le “donne pubblicate”, che rappresentano uno sminuimento della personalità poetica di Montale, sia gli “studenti canaglie”, che rubano queste parole scarne per fare dei “versi veri”, opposti per antitesi al “balbo parlare” ed al “ritmo stento” della poesia montaliana.
8 Nuova: di difficile interpretazione, il significato di questo verso ostico sembra basarsi sull'idea del cambiamento e del mutamento. Probabilmente, l'io lirico osserva un cambiamento nella luce nel cielo, la quale illumina di azzurro il paesaggio, creando una nuova cromaticità (che rianima il poeta, come i “buffi salmastri” di Scendendo qualche volta). Ciò potrebbe verosimilmente corrispondere al passaggio dal meriggio al pomeriggio, che più calmo pervade l'ambiente.
9 Pensieri: essendo fallita la possibilità fisica di unione panica, l'io lirico non può che abbandonarsi ad un excessus mentis ed immaginarsi nel pieno dell'atto che sogna (richiamando la condizione dell’esiliato già presente in Ho sostato talvolta nelle grotte). Questo lasciarsi andare potrebbe giustificare “l'ombra nuova”, caratterizzata da un cambio della percezione dell'ambiente circostante. Il tutto, comunque, è da inscrivere sotto la “prova” che l'io lirico sostiene, sicuramente controllata e mediata dalla sua capacità immaginativa. L'illusione, quindi, è sì presente, ma pur sempre in maniera controllata, quindi effimera.
10 Limite: ecco il risultato più notevole dell'immedesimazione con il mare: tutto ciò che era stato sperato nei movimenti precedenti, e sempre confinato ad una caratteristica del mare, è ora accessibile all'io lirico, il quale abbandona la sponda della ragione per approdare su quella opposta. Il suo finto voto, perciò, lo libera di tutto quello di cui ha avvertito il peso fino a quel momento: i “sensi”, il “senso” (collegati per paronomasia) e il “limite”, peculiari dell'imperfezione umana e condanna di e per essa.