Le Rime, senza contare i testi contenuti anche nella Vita nova, comprendono cinquantasette componimenti; un corpus quindi nel complesso piuttosto piccolo, specie se confrontato ad esempio con i trecentosessantasei testi di Petrarca, e che pure presenta una varietà interna eccezionale. Una ricchezza in primo luogo di temi, che vanno dai testi morali a quelli politici, da quelli amorosi a quelli giocosi. Siamo in realtà di fronte a dei veri e propri “generi” poetici autonomi retti da regole di coerenza interna; le scelte metriche e stilistiche, infatti, per l’estetica medioevale devono sempre conformarsi al tema (la cosiddetta convenientia). Non siamo dunque di fronte a una progressiva evoluzione dello stile di Dante, ma alla compresenza – anche nello stesso periodo – di forme e stili diversi; si è parlato, infatti, di una sorta di “palestra” poetica, nella quale Dante avrebbe sperimentato differenti generi che avrebbe poi recuperato all’interno della Commedia.
In primo luogo debbono essere menzionati dei testi composti per figure femminili diverse da Beatrice; le incertezze intorno alla biografia di Dante, e le allegorizzazioni che egli stesso produsse sugli episodi fondamentali della sua vita, rendono difficile dare dei precisi contorni a tali figure femminili, ma si possono comunque riconoscere dei gruppi di testi con alcuni tratti ben precisi. Un particolare rilievo hanno (insieme ad altri testi minori) le due canzoni Voi ch’intendendo il terzo ciel movete e Amor che ne la mente mi ragiona e, assegnabili al 1293-1295, composte per la donna Gentile della Vita nova. Sono testi che rispondono al principio della gravitas (ossia una certa sostenutezza di lessico e sintassi), come lo stesso Dante sottolinea nel De vulgari eloquentia; ad esempio, lo schema delle stanze della prima canzone è di soli endecasillabi, e quello della seconda ha un solo settenario all’interno però di una stanza di grande estensione. Siamo di fronte a una sorta di elevazione dello Stilnovo, come dimostrano iperboli, metafore, chiamate a testimonianza, e lessico alto. Testi, dunque, suscettibili di essere interpretati nel Convivio come testi volti a cantare allegoricamente l’amore per la Filosofia.
Strettamente associati ad essi, sono poi alcuni testi che si presentano proprio come un superamento della poesia d’amore e dell’amore stesso a favore di una dimensione dottrinale e morale. Le due canzoni Le dolci rime d’amor ch’io solìa (1295), sul concetto di nobiltà, e Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato, sulla virtù sociale della leggiadria, già nel titolo indicano l’abbandono del tema amoroso: nella prima canzone, infatti, sono proprio gli “atti disdegnosi e feri” (v. 5) della donna-filosofia a spingere verso nuovi territori. Dante in Le dolci rime d’amor dichiara di comporre ora non più con lo stile “dolce” della precedente poesia d’amore, ma "con rima aspr’e sottile" (v. 14), ossia con suoni più duri (“aspra”) e movenze più argomentative (“sottile”). Infatti l’argomentazione è sviluppata secondo modelli prosastici e tecnici della cosiddetta quaestio disputata della filosofia scolastica, in cui si provava una tesi alternando confutazione e dimostrazione; a dei veri e propri sillogismi, si affiancano inoltre termini come "riprovando" (v. 15), ossia “provando come falso”, e "diffinisce" (v. 41). Insomma, una sorta di testo filosofico-dimostrativo in versi. Affine per il tema (ma molto diversa per la trattazione) è la canzone Doglia mi reca, contro il vizio dell’avarizia. La estrema lunghezza (è la canzone più lunga di tutte) le permette di sviluppare pienamente l’argomento, staccandosi totalmente dalla dimensione lirica; i toni alti, e indignati, poi, sono dimostrati da una serie di espedienti retorici: rime uguali ravvicinate che danno l’effetto di martellamento sullo stesso tema; fitte interrogazioni ed esclamazioni; continue anafore e ripetizioni (vv. 22-23: "Omo da sé vertà fatt’ha lontana | omo no, mala bestia ch’om somiglia") e poliptoti (v. 43. "Servo non di signor, ma di vil servo"); e un generale tono diretto assai distante dalla tipica complessità dantesca (v. 69: "Corre l’avaro, ma più fugge pace"). Il tema morale, insomma, non è trattato attraverso una vera argomentazione filosofica ma con una concitata indignazione contro un vizio considerato particolarmente abbietto. Estremo sviluppo di questo filone morale è poi Tre donne intorno al cor mi son venute, composta ormai durante l’esilio, di grande ampiezza anch’essa, caratterizzata da un dialogo, anomalo per la tradizione lirica, tra le personificazioni di Amore e Giustizia sul tema della decadenza morale contemporanea. Un testo decisamente anomalo, come conferma la presenza anche di un doppio congedo.
Completamente diverso è un gruppo di poesie - minori anche per l’uso di forme meno diffuse come sonetti e ballate e la rinunzia alla più nobile canzone - di tema strettamente amoroso e stilisticamente più leggere. In queste rime, più giovanili, sono riconoscibili certi tratti di Cavalcanti, come Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare, e ancor più il sonetto Guido, i’ vorrei, dalle rime particolarmente facili e musicali, da una sintassi piana, e ricco di riferimenti alla cultura dei romanzi d'intrattenimento in lingua d'oïl. Per certi versi affine è un gruppo di testi, dai confini in realtà piuttosto incerti, incentrati su tre figure che resta dubbio se possano essere sovrapposte: la Violetta, la Fioretta, e la cosiddetta “pargoletta” una giovane donna per la quale, apparentemente, Dante chiederà perdono a Beatrice quando la rincontrerà alla fine del Purgatorio. Molto alta è la percentuale di ballate, genere musicale per eccellenza, con testi come Per una ghirlandetta, I’ mi son pargoletta bella e nova e Deh, Violetta, che in ombra d’Amore. Questi testi, di per sé abbastanza diversi, passano dall’immagine di una fanciulla dura nel rifiuto dell’amore del poeta ad aspetti sognanti e floreali.
Un caso molto particolare è invece la tenzone con Forese Donati, costituita da tre sonetti a testa, in cui i due poeti si scambiano reciprocamente pesanti insulti. La tenzone, attribuibile al 1293-96, non deve essere considerata un vero litigio con implicazioni autobiografiche, quanto la scelta di praticare un diffuso genere “basso” e “comico”. Il nucleo probabilmente più celebre, però, è quello delle “rime petrose”, collocabile tra il 1296 e il 1298. In questo ciclo sono incluse tre canzoni (Così nel mio parlar voglio esser aspro, Io son venuto al punto della rota e Amor tu vedi ben) e una sestina (Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra). A unirle è il tema di un amore frustrato per una donna aspra e crudele di nome Petra. Anche in questo caso è impossibile sapere se vi sia una realtà biografica, o si tratti di una costruzione interamente letteraria; ciò che è importante, però, è il particolare tessuto stilistico-formale di questi quattro testi, che deve corrispondere alla crudeltà della donna, secondo il modello del trobar clus di Arnaut Daniel.
Bibliografia essenziale:
- Rime, a cura di M. Barbi, in Opere, Società Dantesca Italiana, Firenze, Bemporad, 1921.
- Rime, a cura di G. Contini, in Opere minori, Milano. Napoli, Ricciardi, 1984.