La giara, scritta nel 1906, fa parte della raccolta pirandelliana Novelle per un anno. Convertita nel 1916 in una commedia teatrale, venne rappresentata a Roma nel 1917, ricorrendo all’uso del dialetto agrigentino per i dialoghi tra i vari personaggi. La novella, una delle più celebri e fortunate dell'autore de Il fu Mattia Pascal, sviluppa molti dei punti cardinali della poetica di Pirandello: l'attenzione per situazioni paradossali e al limite del grottesco, la focalizzazione su personaggi caratterizzati da una fissazione maniacale (qui don Lolò Zirafa, ma possiamo pensare anche a Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila), il ricorso ad una soluzione "umoristica" per sciogliere le intricate vicende narrate, come si nota anche ne La patente.
La novella vede protagonista don Lolò Zirafa, un uomo ricco e ossessionato dalla brama del possesso, che vive nella perenne e logorante diffidenza nei confronti del prossimo. Spinto dalla convinzione che chiunque desideri derubarlo, sottraendogli la "roba" cui ha consacrato un'esistenza, trascorre il suo tempo denunciando malcapitati, e dissipando il suo denaro in processi persi in partenza. Anche il legale di don Lolò, che pur si arricchisce grazie alla nevrosi del suo cliente, arriva al punto di non sopportarlo più.
Un giorno don Lolò acquista una giara molto grande per contenere l’olio della nuova raccolta, ma il contenitore si rompe inspiegabilmente a metà. Il ricco Zirafa si vede costretto a rivolgersi quindi all’artigiano Zi’Dima, di cui ovviamente però non si fida. A causa della sua sospettosità perenne, don Lolò non si accontenta del metodo che l’artigiano gli propone per riparare la giara (e cioè, utilizzare un portentoso collante), e lo costringe ad aggiungere una saldatura di ferro. Così Zi’Dima, dopo essersi lamentato della pochissima fiducia riposta nelle sue capacità di artigiano, deve entrare nella giara per portare a compimento il lavoro aggiuntivo voluto da don Lolò. Non calcola però il ristretto collo del contenitore; a lavoro terminato, si rende conto di essere rimasto goffamente intrappolato all’interno della giara stesso, e che l’unico modo per uscire dalla sua prigione di terracotta, è quello di romperla, rovinando così definitivamente il contenitore di don Lolò. Quest’ultimo, dal canto suo, afferma di voler essere risarcito per il danno che verrà fatto alla sua proprietà (o alla sua “roba”, per esprimersi in termini verghiani). L’artigiano rifiuta categoricamente, dicendo che nella giara si trova benissimo e non ha nessuna fretta di uscire, e ribattendo che non si sarebbero trovati in questa situazione se don Lolò non avesse insistito per l’inutile saldatura aggiuntiva.
Il ricco Zirafa va su tutte le furie, e preso da un impeto di rabbia, infrange la giara con un calcio: Zi’Dima si trova così libero senza aver compiuto alcun atto lesivo nei confronti della proprietà di don Lolò, che esce così sconfitto dalla contesa, senza giara e senza risarcimento.