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"Italia mia, benché 'l parlar sia indarno": analisi

Parafrasi Analisi

Introduzione

 

Italia mia, benché ‘l mio parlar sia indarno, canzone composta  tra il 1344 e il 1345, fa parte delle canzoni politiche presenti nel Canzoniere petrarchesco. La situazione storica e politica che fa da sfondo al componimento è la guerra che si svolse tra Obizzo d'Este e Filippino Gonzaga per il possesso della città di Parma, dove risiedeva all'epoca Petrarca. Entrambi i signori in gara avevano scelto di appoggiarsi a milizie straniere - nello specifico tedesche - che giunsero in Italia contribuendo allo scempio di una lotta intestina. L’autore prende spunto da questa circostanza drammatica (ricordata anche nelle lettere Familiari) per una risentita polemica contro i principi e i potenti d’Italia, recuperando una lunga tradizione classico-umanistica.

 

Tematiche

 

La problematica politica e i soldati mercenari (vv. 1-32)

 

Il poeta esprime in questa canzone tutto il suo amore e la sua appassionata partecipazione all'ideale di una mitica Italia del tempo passato, e la sua profonda speranza di vederla un giorno unita; a ciò s'aggiunge la disapprovazione per la politica interna dei Signori italiani, in cui s’individua la prima causa della difficile situazione della nazione. le loro divisioni intestine hanno finora causato solo lutti e dolori.

L’elevatezza dell’argomento spiega l’apertura con un’invocazione all’Italia stessa (v. 1: “Italia mia”), simboleggiata dai tre principali fiumi della Penisola (il Tevere, l’Arno e il Po, vv. 5-6) e di cui si compiangono le ferite “mortali”. Segue addiritttura un'invocazione a Dio, affinché intervenga per migliorare la situazione della nazione “sacra”:

Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda. 1

Nella stanza successiva il poeta attacca i signori italiani per la scellerata decisione di affidarsi a truppe mercenarie 2, all’inseguimento di un “vano errore”, ovvero della sicurezza infodnata di poter comandare chi invece obbedisce solo ai soldi. E il dolore non può che essere senza speranza, se si considera che gli errori vengono commessi dalle proprie stesse mani 3.

 

Il passato glorioso e l’eccellenza del territorio italiano (vv. 33-64)

 

A contrasto con la situazione drammatica del presente, Petrarca loda la penisola italiana e la sua storia. Il paese, nell'immaginario petrarchesco, è favorito dalla naturale posizione geografica (protetta dalle Alpi) ed è illuminata dalla gloriosa storia romana, incarnata da Mario e da Cesare:

[...] et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise 4.

 

 

I principi italiani e Il “memento mori” (vv. 65-112)

 

Nelle stanze seguenti, il piano del ragionamento del poeta è duplice: da un lato, ritornano le accuse di negliglenza, corruzione e disonore contro i prinicpi italiani; dall’altro riemerge l'idea della morte incombente - uno dei temi cardine di tutto il Canzoniere - che dovrebbe invitare i regnanti e prestare più attenzione alla loro vita dopo la morte e alla loro condotta terrena. Si tratta di un vero e proprio memento mori (esperessione latina che significa: “ricordati che devi morire”), che si collega sia alla polemica politica sia al ricordo della grandezza passata dell’Italia 5

 

Il congedo: la “pace” per la penisola (vv. 113-122)

 

La canzone si chiude con il tradizionale “congedo”, in cui Petrarca si rivolge al suo stesso componimento, assegnandogli la missione di recarsi proprio tra coloro che saranno infastiditi da chi proclama la verità. In tal senso, solo in pochi (v. 120: “fra’ magannimi pochi”) sapranno capire l’appello alla pace della canzone petrarchesca.

 

Stile e figure retoriche

 

Dal punto di vista metrico, Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno è suddivisa in sette strofe composte di endecasillabi e settenari, e da un congedo finale formato da dieci versi.

Lo stile del componimento è elevato, in accordo con la tematica seria e drammatica che il componimento sviluppa; tra le figure retoriche che spiccano, si segnalano la prosopopea d’apertura (vv. 1-3, in cui l’Italia viene personificata in un “bel corpo” ferito”), l’uso di chiasmi e parallelismi che arricchiscono la sintassi, la preterizione  sul nome di Cesare (v. 49) e l’abbondanza di interrogative retoriche, il frequente ricorso a immagini figurate e simboliche (come il “dubbioso calle” della morte al v. 102).

Anche le fonti utilizzate contribuiscono alla sostenutezza dello stile: si va da esempi classici (il Cicerone dell’orazione De provinciis consularibus sul ruolo protettivo delle Alpi al Lucano della Pharsalia) fino alle fonti bibliche e ai frequenti prestiti, sintattici e lessicali, dall’Inferno e dal Purgatorio danteschi.

1 F. Petrarca, Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno, in Canzoniere, CXXVIII, vv. 7-16.

2 È un tema costante nella tradizione letteraria, dal Principe di Machiavelli fino ai capitoli dei Promessi sposi sulle tragiche conseguenze della discesa dei Lanzichenecchi in Italia.

3 Ivi, vv. 31-32: “Se da le proprie mani | questo n’avene, or chi fia che ne scampi?”.

4 Ivi, vv. 42-51.

5 Ivi, vv. 100-112: “Voi siete or qui; pensate a la partita: | ché l’alma ignuda et sola | conven ch’arrive a quel dubbioso calle. | Al passar questa valle | piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno, | vènti contrari a la vita serena; | et quel che ’n altrui pena | tempo si spende, in qualche acto piú degno | o di mano o d’ingegno, | in qualche bella lode, | in qualche honesto studio si converta: | cosí qua giú si gode, | et la strada del ciel si trova aperta”.