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Petrarca, "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi": parafrasi e commento

Introduzione

 

In questo sonetto, il novantesimo dei Rerum vulgarium fragmenta, l’immagine di Laura torna a riaffacciarsi nella memoria del poeta in modo chiaro e limpido (incerta la possibile datazione, su un arco cronologico che va dal 1339 fin verso il 1347): la rievocazione è a tal punto intensa che la donna amata si staglia, con immagine fortemente icastica, nella mente del poeta e, conseguentemente, nella memoria del lettore.

 

I temi del sonetto: la bellezza di Laura e lo scorrere del tempo

 

La celebrazione della bellezza femminile si associa al ricordo dell’innamoramento, e la potenza dell’amore è tale che, nonostante il trascorrere del tempo (l’"allentar dell’arco" dell’ultimo verso), la ferita da esso provocata non può essere in alcun modo rimarginata. In tal senso, confluiscono qui i temi più caratteristici del Canzoniere: il senso della caducità del tempo, l’opposizione vita/morte e materialità/trascendenza, l’autoanalisi critica ed ossessiva della proprie passioni e delle proprie inclinazioni intime.

Il sonetto comincia con la descrizione della donna nei suoi tratti essenziali (vv. 1-6): i capelli d’oro, i “begli occhi” e il viso. I capelli sono mossi da un leggero vento - immagine tratta dalla tradizione classica -, il volto arrossisce delicatamente e gli occhi di Laura si illuminano “oltre misura”. Il poeta esprime qui l’ideale di bellezza classico e medievale; l’aspetto della ragazza corrisponde al modello della donna-angelo, confermato nei versi successivi (vv. 9-10): “Non era l’andar suo cosa mortale| ma d’angelica forma”. Nei versi 7-8 emerge l’Io poetico, colto nel momento della prima passione: il poeta ha un’indole che lo porta ad amare (“i’ che l’esca amorosa al petto avea") e, solo alla vista della donna, nasce l’amore per lei. L’Io ricompare ai vv. 12-14, dove il poeta afferma l’ineludibilità dell’amore eterno per la donna, dato che la sua è una ferita insanabile.

 

Il rapporto di Laura con lo Stilnovismo

 

In questo sonetto Petrarca riprende e rielabora la tradizione stilnovistica e dantesca, soprattutto nella scelta lessicale e nell’uso delle metafore: la descrizione della donna angelicata, l’amore come un fuoco che arde, innamoramento come una piaga. A differenza della donna amata da Dante, Beatrice, Laura non ha una funzione salvifica, ma può diventare simbolo della poesia stessa attraverso il gioco di parole tra il nome della donna e il lauro poetico. C’è poi un continuo passaggio tra presente e passato, espresso da imperfetti e passati remoti (“arsi” e “vidi”). Ed il tempo passato è proprio della dimensione del ricordo e della visione di Laura, da una parte con un valore di indefinitezza (l’imperfetto “Erano”, “sonavano”), dall’altra come indicazione precisa di un’azione; il presente invece rappresenta l’incertezza del poeta (v. 6 “non so se è vero o falso”) e l’affermazione finale di amoreassoluto, estraneo alla dimensione temporale.


Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE.

 

  1. Erano i capei d'oro a l'aura 1 sparsi
  2. che 'n mille dolci nodi gli avvolgea,
  3. 'l vago lume oltre misura ardea
  4. di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi 2;
  5. e 'l viso di pietosi color farsi,
  6. non so se vero o falso 3, mi parea :
  7. i' che l'esca amorosa 4 al petto avea,
  8. qual meraviglia se di subito arsi?
  9. Non era l'andar suo cosa mortale,
  10. ma d'angelica forma 5, e le parole
  11. sonavan altro che pur voce umana;
  12. uno spirto celeste, un vivo sole
  13. fu quel ch'io vidi; e se non fosse or tale,
  14. piaga per allentar d'arco non sana 6.
  1. I capelli dorati erano sparsi al vento,
  2. che li avviluppava in mille boccoli soavi,
  3. la bella luce di quei begli occhi, che ora ne sono così privi,
  4. risplendeva con immensa forza;
  5. e mi sembrava che il viso, non so se davvero
  6. o solo nella mia immaginazione, si colorasse di pietà;
  7. io, che avevo deposta in cuore l’esca amorosa,
  8. c’è da meravigliarsi se subito m’infiammai d’amore?
  9. Il suo incedere non era quello di una creatura mortale,
  10. ma di un angelo celeste,
  11. e dalle parole traspariva altro che una semplice voce umana;
  12. uno spirito celeste, un sole splendente,
  13. fu ciò che io vidi; e se non fosse più come allora,
  14. la ferita non si rimargina allentando l’arco.

1 a l’aura: Il gioco onomastico "l’aura - Laura" è ricorrente nel Canzoniere petrarchesco. Anche in conseguenza di questi giochi linguistici e semantici, il personaggio di Laura diventa presenza costanza in tutte le pagine dei Rerum vulgarium fragmenta. Significativo che l'incipit ricordi la descrizione virgilaina della dea Venere (Eneide, I, 323: dederat comam diffundere ventis, "aveva lasciato i capelli spargersi al vento")

2 Si noti la dovizia di particolari di cui si carica il ritratto della donna amata: i capelli “d’oro” che il vento scompiglia in mille boccoli, la luce splendente degli occhi e, nella terzina che segue, il colorito del volto. La descrizione si carica di concretezza e vitalità, una vitalità presto negata dalla clausola “ch’or ne son sì scarsi”, che introduce l’immagine di cupezza e di morte, che fa da controcanto all’intero libro.

3 non so se vero o falso: realtà e immaginazione si fondono in un rapporto osmotico, sovrapponendosi all'antitesi tra il richiamo delle passioni e la ricerca di una Verità superiore.

4 l’esca amorosa: l’immagine dell’esca amorosa, che innesca l’incendio interiore del poeta, sarà ripresa dai petrarchisti, fino a diventare “maniera” nella lirica di Giovan Battista Marino e dei suoi imitatori.

5 d’angelica forma: da intendersi diversamente rispetto alla produzione dello Stilnovo; Laura, infatti, non pare affatto portatrice di una forma di salvezza o di elevazione dal mondo terrestre (qual era invece la Beatrice raffigurata nel sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare), quanto piuttosto un elemento che tormenta il poeta fino allo sfinimento.

6 L’immagine dell’arco che allenta la sua corda (ovvero metafora che rimanda allo sfiorire della bellezza umana di Laura) chiude efficacemente il sonetto, con l’icasticità che già aveva caratterizzato la prima quartina.