La bufera e altro (1956) è la terza raccolta poetica di Montale: in essa convergono i testi di Finisterre, libretto stampato in Svizzera nel 1943, insieme ad altre poesie scritte tra il ’40 e il ‘54 (oltre al recupero di qualche componimento più antico). Il titolo, come sempre in Montale, si rivela pieno di significato: la “bufera” è insieme quella particolare della guerra e quella universale riferita alla condizione umana. L’“altro” si riferisce a una complicata vicenda personale, che s’intreccia alla guerra e al suo inferno: è la risposta del poeta al collasso storico-sociale, una specie di romanzo amoroso in cui l’amata assente, Clizia (Irma Brandeis), si trasfigura in un angelo salvifico che si oppone al destino di dannazione dell’io poetico e dell’umanità in generale. Più precisamente, nella Bufera assistiamo al compimento di questa trasfigurazione, già iniziata alla fine de Le occasioni, e poi all’esaurimento della funzione salvifica di Clizia, che non riesce più a soddisfare la nuova domanda di vita “terrena” del poeta. La prima sezione, Finisterre, è molto vicina allo stile de Le occasioni, e ne costituisce quasi un completamento. Queste quindici poesie rappresentano il momento “petrarchesco” di Montale: uno stile aulico, elaboratissmo e cifrato, in cui i segni della donna si oppongono alla violenza della storia, qui rappresentata attraverso immagini apocalittiche e di taglio quasi metafisico (Gli orecchini, Nel sonno). La poesia che chiude la sezione, A mia madre, introduce il tema del rapporto coi morti, fondamentale per tutta La bufera (ad esempio in Voce giunta con le folaghe o L’arca). Secondo un importante critico, Pier Vincenzo Mengaldo, nel Montale più tardo “l’autenticità […] dimora ormai solo presso i «diversi» e i defunti, e la possibile salvazione si dà come rogo, abbacinante distruzione di sé” 1. La parabola di Clizia è l’asse portante dello svolgimento tematico e narrativo della Bufera. Se nella Primavera hitleriana Clizia è l’angelo che può guidare l’umanità verso la salvezza, già in Iride, momento supremo della sua apoteosi, la donna diviene completamente irriconoscibile, abbandona e distrugge la sua persona terrena per diventare “Cristofora”, una specie di entità spirituale che replica il sacrificio di Cristo 2.
L’impiego scoperto di un linguaggio religioso e quasi mistico non deve ingannare: lontano da qualsiasi confessione religiosa, Montale costruisce “il mito di Clizia come Cristofora, votata a ripetere un’Incarnazione laica, e cioè a rappresentare il collegamento con la dimensione terrena - e civile - dei valori della cultura, di valori cioè non religiosi, ma innalzati dalla personale mitologia di Montale a un livello quasi religioso.” 3. Poco dopo la sua apoteosi angelica, Clizia tramonta insieme alla “mitologia neostilnovistica” 4 nata nelle Occasioni. In Voce giunta con le folaghe, Il gallo cedrone e soprattutto L’ombra della magnolia, il poeta si separa definitivamente da Clizia, ormai lontana e persa nell’“oltrecielo” (L’ombra della magnolia, v. 24). Come nota Pietro Cataldi, “l’orbita ove ella solo può navigare è troppo a grande distanza dalle cose cui dovrebbe dare senso; l’affermazione di universalità che da lei può esprimersi non redime la contingenza dei particolari” 5. Ne L’anguilla, uno dei capolavori del libro, Clizia perde il suo aspetto angelico e si trasforma in animale, nella “sirena | dei mari freddi” (vv. 1-2) che nuota controcorrente per raggiungere “paradisi di fecondazione” (v. 19), “anima verde che cerca | vita là dove solo | morde l’arsura e la desolazione” (vv. 20-22). Il poeta tende a un nuovo tipo di amore, meno intellettualistico e più legato all’esperienza concreta. Si affaccia così nella Bufera una nuova musa montaliana, la “Volpe”: la trasfigurazione poetica di Maria Luisa Spaziani, giovane poetessa conosciuta da Montale nel ’49. Pur mantenendo alcune caratteristiche della donna-angelo, la Volpe è una musa terrena, una sorta di anti-Beatrice che non porta nessuna salvezza oltremondana o “culturale”, ma è in grado a offrire al poeta una comunicazione umana prima impensabile: “Volo con te, resto con te; morire, | vivere è un punto solo, un groppo tinto | del tuo colore” (Nubi color magenta…, vv. 15-17). Il contrasto tra le due muse, una terrestre e l’altra angelica, si riflette anche sullo stile: nella Bufera una lingua poetica alta e oscura convive con l’abbassamento e la mescolanza dei registri.
La sconfitta di Clizia è anche una sconfitta ideologica: i valori umanistici ed etici che incarnava si rivelano armi insufficienti e astratti per combattere contro la Storia. Alla fine della Bufera, l’inferno di Finisterre e de La primavera hitleriana è ormai sostituito dai terrori della guerra fredda e dal disgusto per gli sviluppi sempre più perversi (secondo Montale...) della società di massa. Alla poesia rimane soltanto una funzione di amuleto - che ribadisce con fierezza la sua inutilità - e di fuga nella dimensione illusoria dell’esperienza privata (Il sogno del prigioniero). Montale riesce così a rimanere paradossalmente ancorato ai valori umanistici che critica, spiegando che “persistenza è solo l’estinzione” (Piccolo testamento, v. 24): un modo per dichiarare con orgoglio la propria sconfitta, lasciando allo stesso tempo una strada aperta verso il futuro.
1 P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 528.
2 Iride, vv. 29-34, 40-43: "Perché l’opera tua (che della Sua | è una forma) fiorisse in altre luci | Iri del Canaan ti dileguasti | in quel nimbo di vischi e pungitopi | che il tuo cuore conduce | nella notte del mondo […]. || Ma se ritorni non sei tu, è mutata | la tua storia terrena, non attendi | al traghetto la prua, || non hai sguardi, né ieri né domani;"
3 P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991, p. 41.
4 Ivi, p. 44.
5 Ibidem.