Composto nel 1954, Il sogno del prigioniero occupa, insieme con il Piccolo testamento, l’ultima sezione - intitolata significativamente Conclusioni provvisorie - de La bufera e altro (1956). Si tratta di una cupa allegoria, fitta di riferimenti danteschi, alla realtà della guerra fredda e agli orrendi crimini delle dittature totalitarie nel corso del Novecento, cui si oppongono, come strenua difesa, i valori umani dell’amore e della poesia.
Considerando l’anno a cui risale la raccolta poetica in cui questo componimento figura, la critica ha infatti riconosciuto nel "prigioniero" montaliano un recluso dei campi di sterminio nazisti, o dei gulag staliniani, di cui in quegli anni si scopriva l'orrore. Più verosimilmente il protagonista del componimento è invece il poeta stesso - o meglio, un intellettuale cui, di fronte alla realtà oppressiva del mondo, resta aperta solo la via del sogno. La condizione di prigionia e di oppressione si riferisce quindi a tutta l’umanità, che vive intrappolata tra le trame della società moderna. L’uomo è conscio, come il prigioniero della poesia, che l’unico modo per sopravvivere a questa reclusione è la denuncia, il sacrificio della vita di qualcun altro per avere salva la propria. Il protagonista dei versi non sa ancora come si comporterà, e forse neanche Montale: se seguirà la sua morale o se si farà travolgere dal richiamo che la vita, con le sue attrattive, ancora esercita nei suoi confronti. Lo stile de Il sogno del prigioniero si modella su questa disperazione esistenziale: il ricorso al pluristilismo (evidente in alcune scelte lessicali: "battifredi", v. 2; "obiurga", v. 14; "Iddii pestilenziali", v. 17; "buccellati", v. 25) e la sintassi involuta e complessa vogliono appunto trasmettere l'idea di un "male di vivere" che, a partire dagli Ossi di seppia, ormai sembra derivare dalla Storia umana intera.
Gli unici momenti di speranza e positività che interrompono questo flusso negativo avvengono durante il riposo notturno, quando il prigioniero può finalmente sognare la donna amata, come leggiamo al v. 10 “se dormendo mi credo ai tuoi piedi”. Ritroviamo quindi l’idea della figura femminile come figura salvifica, che riconnette il poeta al mondo e lo guida nella vita.
Metrica: versi liberi.
- Albe e notti qui variano per pochi segni 1.
- Lo zigzag degli storni sui battifredi 2
- nei giorni di battaglia, mie sole ali 3,
- un filo d'aria polare,
- l'occhio del capoguardia dello spioncino,
- crac di noci schiacciate, un oleoso
- sfrigolio dalle cave 4, girarrosti 5
- veri o supposti - ma la paglia è oro,
- la lanterna vinosa 6 è focolare
- se dormendo mi credo ai tuoi piedi.
- La purga 7 dura da sempre, senza un perché.
- Dicono che chi abiura e sottoscrive
- può salvarsi da questo sterminio d'oche 8;
- che chi obiurga se stesso, ma tradisce
- e vende carne d'altri 9, afferra il mestolo
- anzi che terminare nel pâté
- destinato agl'Iddii pestilenziali 10.
- Tardo di mente, piagato
- dal pungente giaciglio mi sono fuso
- col volo della tarma che la mia suola
- sfarina sull'impiantito 11,
- coi kimoni cangianti delle luci
- sciorinate all'aurora dai torrioni,
- ho annusato nel vento il bruciaticcio
- dei buccellati dai forni 12,
- mi son guardato attorno, ho suscitato
- iridi 13 su orizzonti di ragnateli
- e petali sui tralicci delle inferriate,
- mi sono alzato, sono ricaduto
- nel fondo dove il secolo è il minuto 14 -
- e i colpi si ripetono ed i passi,
- e ancora ignoro se sarò al festino
- farcitore o farcito. L'attesa è lunga,
- il mio sogno di te non è finito 15.
- [In carcere] l’alba e la notte hanno poche differenze.
- Il movimento degli uccelli attorno alle torri di guardia
- nei giorni di guerra, mia unica possibilità di
- movimento, un refolo d’aria ghiacciata,
- lo sguardo del capoguardia dallo spioncino,
- il rumore dello schiacciamento delle noci, lo sfrigolio
- dell’olio dalle cucine, vere o presunte
- macchine di tortura - ma, se mentre dormo
- mi immagino ai tuoi piedi, la paglia diventa oro
- la lanterna dalla fiamma rossiccia è un focolare.
- Questa epurazione dura da sempre, senza motivo.
- Si vocifera che ci sconfessa la propria fede e
- ne sottoscrive un’altra può salvarsi da questo
- massacro di oche; [dicono che] chi rimprovera
- se stesso, ma intanto vende la pelle altrui, afferra
- lo strumento dei carnefici anziché finire nella carne
- tritata destinata agli oppressori e ai tiranni.
- Lento di mente, coperto di piaghe
- per il mio letto di paglia, sono diventato la stessa
- cosa con il volo di un tarma che il mia scarpa
- spiaccica sul pavimento, [e mi sono
- identificato] con i giochi di luce - simili a kimoni
- variopinti - che l’aurora disegna sulle torri.
- ho annusato nell’aria l’odore bruciaticcio
- delle ciambelle dolci che viene dai forni,
- ho dato uno sguardo attorno, ho creato
- arcobaleni su panorami di ragnatele,
- e ho immaginato petali lungo le inferriate del carcere,
- mi sono alzato, e sono crollato
- dove un minuto dura un secolo -
- e i passi e i colpi si susseguono continuamente,
- e ancora non so se al festino sarò
- vittima o carnefice. L’attesa dura ancora,
- e il mio sogno di te non è finito.
1 L’ambientazione, cui tutto il componimento allude senza mai specificarla chiaramente, è quella di una cella, da cui un prigioniero può contemplare la piccola frazione di mondo che gli concedono le sbarre; in tal senso, anche il fluire quotidiano del tempo sembra annullarsi.
2 lo zigzag degli storni sui battifredi: prima traccia della torsione stilistica cui, soprattutto nella Bufera, Montale costringe il proprio linguaggio, per assecondare una materia aspra e difficile quale l’esperienza della guerra e le ansie di distruzione planetaria del Dopoguerra. Gli “storni” sono sia gli stormi di uccelli sia - per analogia - i battaglioni di aerei impegnati nella battaglia, mentre i “battifredi” (con uso di una voce che recupera l’antico francese berfroi) sono torri di guardia, in legno, solitamente usate a scopo difensivo.
3 mie sole ali: la condizione di isolamento e di prigionia estrania il “prigioniero” dalla comunione con i propri simili e con gli altri uomini; sua unica possibilità di fuga (per quanto immaginifica ed irreale) è appunto il guardar fuori dalla finestra e dalle inferriate.
4 un oleoso sfrigolio dalle cave: il prigioniero può solo raccogliere e catalogare i rumori dall’esterno, immaginando da dove possano provenire; qui, l’allusione alle cucine (le “cave”) crea subito un rimando intertestuale sia alle profondità infernali (e quindi a Dante, che diventa nella Bufera un vero e proprio modello di poetica) sia all’equiparazione tra i condannati e la carne da macello, come poi spiegato dai versi successivi.
5 girarrosti: il rumore può provenire da girarrosti, cupamente simili agli strumenti di tortura utilizzati per estrocere confessioni ai reclusi. Si notino in questi versi l’insistenza su suoni aspri e duri (“zigzag”, “battifredi”, “crac”, “sfrigolio”, “girarrosti”).
6 la lanterna vinosa: la piccola luce, rossiccia come il vino, della cella del prigioniero.
7 la purga: la condanna a morte che grava sul prigioniero e sugli altri come lui è una condizione esistenziale permanente; con l’incipit di questa stanza, aumentano i rimandi agli eventi storici più tragici del Novecento. Qui il termine “purga” allude alle campagne staliniste di repressione del dissenso interno in URSS, attraverso l’instaurazione del sistema dei Gulag.
8 sterminio d’oche: sviluppando la metafora culinaria, che ricorre in tutto il componimento, Montale paragona gli uomini incarcerati ad oche macellate per soddisfare il palato dei potenti.
9 Montale descrive qui le pratiche (menzogna, tradimento e delazione) cui si prestano i prigionieri del carcere, che sperano di sfuggire alla tortura o alla morte, passando dalla parte degli oppressori.
10 terminare nel pâté destinato agl'Iddii pestilenziali: culmine della metafora culinaria su cui è organizzata la stanza; passare dalla parte degli assassini assicura a chi tradisce di non finire nel “pâté” (un “pasticcio” di carni tritate ed aromatizzate in vario modo) imbandito per gli “Iddii pestilenziali”, ovvero quelle divinità terrestri (i tiranni politici, paragonati a divinità maligne e perverse che si cibano dei loro sudditi) che spargono e diffondono la peste.
11 La condizione di reclusione infiacchisce le risorse fisiche e mentali del protagonista, tanto da fargli perdere quasi la stessa identità di uomo, portandolo a rassomigliare ad una tarma schiacciata con le scarpe.
12 il bruciaticcio dei buccellati dai forni: se il buccellato è una ciambella di pane dolce, d’origine lucchese, con vaniglia, uvetta ed anice, qui l’allusione va anche ai forni crematori dei campi di sterminio nazisti.
13 ho suscitato iridi: il prigioniero, per salvarsi dall’orrore e dalla disumanizzazione più completa, immagina arcolbaleni sul filo d’orizzonte delle ragnatele della sua stanza. Nella Bufera e altro, spesso il termine “iride” è senhal ed evocazione di Clizia, cui si sovrappone poi l’idea stessa di poesia, che ha il compito di riaffermare quei valori negati dagli sviluppi degli eventi storici.
14 dove il secolo è minuto: la prigionia senza possibilità di fine fa sì che ogni istante si protragga fino a sembrare un secolo.
15 Persiste comunque la speranza, sopravvissuta nella dimensione del sogno, che la donna-angelo della Bufera (la Clizia della Primavera hitleriana o del Piccolo testamento) possa ancora svolgere la propria funzione salvifica. Il recupero dell’immagine stilnovistica della donna-angelo si salda con la poetica delle “occasioni”, secondo cui all’uomo è concesso solo sporadicamente (e per rapidissimi momenti) di accedere alla verità metafisica sul mondo. In tal senso, il sostrato religioso che Dante assegnava alla figura di “madonna” Beatrice si evolve in Clizia in senso laico, come via di fuga e di redenzione dall’incubo della storia contemporanea.