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Montale, “Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale”: parafrasi e commento

Nel settimo movimento di Mediterraneo, corrispondente alla lirica Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, la crisi del poeta si fa sempre più acuta: quasi immemore della presa di coscienza (che pure alla rottura) fatta nel quinto movimento (Giunge a volte repente), l'io lirico - abbandonati il pendio, la resistenza e la “rancura” - ritorna in riva al mare e con quest’ultimo si confessa faccia a faccia. Questo movimento apre con un rimpianto che cela un mancato correlativo oggettivo, già incontrato precedentemente più volte: il ciottolo trasportato dalle correnti. Il paradigma che questo comporta non è più negativo, come lo era quando per i detriti della corrente, bensì positivo: si rimpiange il mancato abbandono al mare, lo stesso che fino ad ora è stato scongiurato.

Non essendosi comportato come il pietrame marino, egli è stato “uomo che tarda | all'atto, che nessuno, poi, distrugge”, nonché un uomo che non ha afferratto e modellato la vita perché troppo impegnato ad osservarla ed interrogarsi su di essa, in modo probabilmente inutile. La volitività dannunziana è quindi fortemente rovesciata; l'inettitudine, tematica cara alla letteratura novecentesca, si sta affermando. Si conserva, però, il risultato di tanta osservazione: l'essenza del mondo, scoperta grazie all'interrogazione continua, è stata conosciuta dall'io lirico, il quale, osservando i movimenti del mare, ne ha carpito i segreti fondanti.

Proprio come Edipo, che volle sapere e poi non volle sapere più, l'io lirico ha ora “l'opposto in cuore”: ciò di cui necessita è uno slancio vitale per continuare a vivere, lo stesso che la sofferenza della conoscenza gli ha fatto perdere. La disillusione panica raggiunge qui il punto massimo, ma è comunque l'illusione a prevalere: come un incantatore inesorabile, il mare, con il suo “canto”, culla ancora l'io lirico, che ad esso si abbandona. La figura del mare, pertanto, resta sempre protagonista, insieme all'io lirico, del componimento. È da essa che l'io lirico si distacca, ragiona, e a cui ritorna infine.

Metro: ventiquattro versi in cui l’endecasillabo vige sovrano, giustapposto ad un più veloce settenario, quasi unico verso corto della lirica. Il lamento prende qui una forma più rimuginativa, sfruttando la misura endecasillabica che si protrae meno velocemente rispetto ai metri brevi e venendo rincalzato dal puntuale tessuto fonico, adornato particolarmente di assonanze (di cui particolarmente quella finale) e abbellito con rime, soprattutto interne.

  1. Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
  2. siccome i ciottoli che tu volvi,
  3. mangiati dalla salsedine 1;
  4. scheggia fuori del tempo, testimone
  5. di una volontà fredda che non passa 2.
  6. Altro fui: uomo intento che riguarda
  7. in sé, in altrui, il bollore
  8. della vita fugace 3 - uomo che tarda
  9. all'atto, che nessuno, poi, distrugge 4.
  10. Volli cercare il male
  11. che tarla il mondo, la piccola stortura
  12. d'una leva che arresta
  13. l'ordegno universale 5; e tutti vidi
  14. gli eventi del minuto
  15. come pronti a disgiungersi in un crollo 6.
  16. Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
  17. l'opposto in cuore, col suo invito 7; e forse
  18. m'occorreva il coltello che recide,
  19. la mente che decide e si determina 8.
  20. Altri libri occorrevano
  21. a me, non la tua pagina rombante 9.
  22. Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
  23. ancora i groppi interni col tuo canto 10.
  24. Il tuo delirio sale agli astri ormai 11.grotte).[/fn].
  1. Avrei voluto sentirmi ruvido e semplice
  2. come le pietre che riporti (a riva con la corrente),
  3. erose dalla salsedine;
  4. scheggia su cui il tempo non ha effetto, testimone
  5. di una volontà fredda che non si spegne mai.
  6. Fui (però) altro: un uomo impegnato ad osservare
  7. su di sé, sugli altri, lo scorrere
  8. della vita veloce – un uomo che impiega tempo
  9. per agire, che a nessuno, alla fine, arreca danno.
  10. Volli cercare il male
  11. che rovina il mondo, il piccolo difetto
  12. di una leva che ferma
  13. il meccanismo universale; e vidi tutti
  14. gli avvenimenti di quel momento
  15. come se fossero pronti a disfarsi crollando.
  16. Seguito il cammino di un sentiero sentii il desiderio
  17. di andare dalla parte opposta, sotto suo invito; e forse
  18. avevo bisogno del coltello in grado di tagliare,
  19. della mente in grado di decidere e darsi un'identità.
  20. Di libri diversi avevo bisogno
  21. io, non della tua distesa fragorosa.
  22. Ma non so rimpiangere niente: tu sciogli
  23. di nuovo le mie preoccupazioni con il tuo canto.
  24. Il tuo delirio (è tanto alto che) arriva ormai fino alle stelle. stelle.

1 Salsedine: ancora una volta i ciottoli marini vengono usati come esito di una correlazione dall'io lirico: essi diventano, come già lo erano (specialmente in Ho sostato talvolta nelle grotte e Giunge a volte, repente), i prodotti più notevoli della legge marina, la quale li inghiotte e, addirittura, li mangia, consumandoli in un vorace processo di personificazione. L'io lirico rimpiange il suo essersi discostato da essi ed aver scelto un destino diverso dal loro, perciò di non essersi abbandonato al mare lasciando che esso lo accogliesse. È qui presente un pentimento regressivo: l'io lirico si rammarica di non aver fatto ciò che, fino ad ora, non ha assolutamente desiderato per se stesso.

2 Non passa: ecco le apposizioni del ciottolo, segno più evidente del rimpianto del poeta: l'essere “fuori del tempo”, cioè lontano dall'umana sofferenza causata dalla finitudine, ed il conoscere la “volontà fredda che non passa”, quindi il vivere sempre secondo uno stesso principio escluso dalla mutabilità continua della vita. Ancora una volta, l'io lirico rifugge la precarietà della vita per come egli l'ha conosciuta, rimanendo lontano dal mare ed autodeterminandosi.

3 Fugace: da notare come il mare, pur essendo un ricordo lontano da questo periodo (il quale è locato nella vita umana dell'io lirico), sia comunque importante: è di esso il “bollore | della vita”, espresso secondo una puntuale e non casuale metafora, quasi come se ogni creatura portasse (come detto in Noi non sappiamo quale sortiremo) il segno evidente che la ricollega al mare, suo principio generatore.

4 Distrugge: l'io lirico cerca di definirsi, di darsi un volto come uomo, ribattendo sull’anafora esplicativa. Il risultato non è soddisfacente, è anzi storpio: avendo voluto ritagliare per sé uno spazio umano (e non essendosi lasciato trasportare dal mare), egli ha fallito in quanto non è riuscito ad ottenere il giusto ed il buono dalla vita, rimanendo così sommerso da essa, precipitando nell'inettitudine.

5 Universale: emerge qui la colpa che l'io lirico riconosce. L'interesse per il sapere ed il costante desiderio di ricercare la “maglia rotta nella rete / che ci stringe” (cfr. In limine, ma anche Meriggiare pallido e assorto) lo hanno portato a muoversi in un mondo caduco, destinato al fallimento, entro i termini del quale egli non desidera vivere. Il mondo, che diventa baroccamente l'“ordegno universale”, resta quindi un luogo fallace e posticcio, ma ciò che si rifugge è proprio questa presa di coscienza, cioè quella del “male / che tarla il mondo”.

6 Crollo: da notare è qui il momento metastorico, che ritornerà specialmente nel Montale più maturo (cfr., ad esempio, La bufera, in La bufera e altro, incarnato dalla figura di Clizia): l'apocalittico “minuto” trascende il presente e rivela la caducità del mondo tutto, la precarietà che lo governa e la finitudine a cui esso è confinato, le quali si risolvono nel “crollo” che ne conferma la fatiscenza.

7 Invito: si crea qui il cambio di direzione che caratterizza la lirica intera. Puntando al panismo con il mare, l'io lirico ha scelto un “solco d'un sentiero” ben preciso (che molto ricorda la scia delle onde e, allo stesso tempo, le impervie strade di Scendendo qualche volta), lontano dalla vita terrestre, ma ora se ne pente e comunica che vorrebbe cambiare strada. L' “opposto in cuore” giustifica il desiderio di invertire la rotta una volta arrivato alla fine della strada intrapresa, una volta scoperto che il mare non è in grado di risolvere il proprio dolore (conoscenza-sofferenza). Il “suo invito” è, chiaramente, quello del mare, di cui ritorna nei successivi versi il “canto” (ripreso particolarmente da Ho sostato talvolta nelle grotte, la cui idea di “musica” è anche in Giunge a volte, repente).

8 Determina: ilrichiamo dell'io lirico alla volitività dannunziana è qui efferato: il “coltello”, la cui capacità di taglio sembra quasi spaventare il Montale degli Ossi, diventa, secondo un processo di correlazione oggettiva, lo strumento tramite cui l'uomo può emanciparsi dalle sue origini, proprio come se dovesse recidere il cordone ombelicale che ad esse lo lega. Lo stesso è per la “mente che decide” (in rimalmezzo, non casualmente, con “recide”), la quale ha un ruolo fondamentale nella scelta identitaria, soprattutto perché “determina”. L'errore dell'io lirico, però, è stato quello di non disporre né di uno né dell'altra, finendo così per diventare un inetto soggetto inequivocabilmente alla volontà del mare.

9 Rombante: restando sul tema della conoscenza, i “libri” diventano il mezzo tramite cui l'io lirico giunge ad essa. Essi sono collegati metaforicamente alla distesa marina sia in senso fisico (per quanto riguarda il mare, esteso come detto in Antico, sono ubriacato dalla voce) sia in senso figurato (in base alla lezione che l’io lirico impara da esso, come detto in Ho sostato talvolta nelle grotte). Coerentemente al desiderio ermeneutico del Montale degli Ossi, che interpreta la natura circostante come se dovesse leggerla e comprenderla, il mondo si fa dunque una pagina che può essere letta e compresa. La scelta è allora duplice: gli “altri libri” da una parte, rappresentanti la capacità di illusione e la repulsione della conoscenza-sofferenza, e la metonimica e metaforica “pagina rombante” del mare dall'altra, ovvero la distesa marina che l'io lirico ha interpretato lungo tutto il corso di Mediterraneo.

10 Canto: dinnanzi alla seducente e commovente melodia del mare, l'io lirico non può che ascoltare e farsi cullare da essa, abbandonandosi lascivamente al principio che fino ad ora ha attenuato il peso della sua esistenza. Metaforico rimedio benefico contro il male che si annida dentro il suo corpo, la presenza marina è in grado di alleviare le sofferenze nascoste dell'io lirico, consolandolo “ancora” anche dopo la fine dell’infanzia.

11 Ormai: la lirica chiude con la manifestazione più alta del mare: il suo “delirio”, interpretabile con il rumore che fa, oppure con gli schizzi che le onde, all'impazzata, producono frangendosi sugli scogli, oppure ancora con il sentimento che ispira all'io lirico (lo stesso dei “buffi salmastri | al cuore” di Scendendo qualche volta). In ogni caso, esso è manifestazione della piena potenza delle acque, che l'io lirico ammira profondamente e con devozione sublime (quasi ricordandone la magnificenza descritta in Ho sostato talvolta nelle grotte).