Nell’incipit del ventiquattresimo canto del Purgatorio, Dante è ancora in compagnia dell’amico di gioventù Forese Donati (con il quale scambiò la celebre tenzone poetica) incontrato tra i golosi della sesta cornice nel canto precedente (vv. 37-60). L’occasione diviene per Dante lo spunto per ripercorrere autobiograficamente gli anni giovanili (in particolar modo lo sviamento filosofico e teologico dopo la morte di Beatrice) e anche per tirare le somme dell’esperienza dello Stilnovo; proprio per questo il personaggio con cui si intrattiene Dante è il poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani. Segue poi la porfezia sulla morte di Corso Donati e la vista di un albero che deriva da quello del Paradiso terrestre di Adamo ed Eva.
- Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento
- facea, ma ragionando andavam forte 1,
- sì come nave pinta da buon vento;
- e l’ombre, che parean cose rimorte 2,
- per le fosse de li occhi ammirazione
- traean di me, di mio vivere accorte.
- E io, continüando al mio sermone,
- dissi: "Ella sen va sù forse più tarda
- che non farebbe, per altrui cagione 3.
- Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda 4;
- dimmi s’io veggio da notar persona
- tra questa gente che sì mi riguarda".
- "La mia sorella, che tra bella e buona
- non so qual fosse più, trïunfa lieta
- ne l’alto Olimpo già di sua corona".
- Sì disse prima; e poi: "Qui non si vieta
- di nominar ciascun 5, da ch’è sì munta
- nostra sembianza via per la dïeta.
- Questi", e mostrò col dito, "è Bonagiunta,
- Bonagiunta da Lucca 6; e quella faccia
- di là da lui più che l’altre trapunta 7
- ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
- dal Torso fu, e purga per digiuno
- l’anguille di Bolsena e la vernaccia 8".
- Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
- e del nomar parean tutti contenti,
- sì ch’io però non vidi un atto bruno 9.
- Vidi per fame a vòto usar li denti
- Ubaldin da la Pila 10 e Bonifazio 11
- che pasturò col rocco molte genti.
- Vidi messer Marchese 12, ch’ebbe spazio
- già di bere a Forlì con men secchezza,
- e sì fu tal, che non si sentì sazio 13.
- Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
- più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
- che più parea di me aver contezza.
- El mormorava; e non so che "Gentucca" 14
- sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
- de la giustizia che sì li pilucca 15.
- "O anima", diss’io, "che par sì vaga
- di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
- e te e me col tuo parlare appaga".
- "Femmina è nata, e non porta ancor benda 16",
- cominciò el, "che ti farà piacere
- la mia città 17, come ch’om la riprenda 18.
- Tu te n’andrai con questo antivedere:
- se nel mio mormorar prendesti errore,
- dichiareranti ancor le cose vere 19.
- Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
- trasse le nove rime, cominciando
- ’Donne ch’avete intelletto d’amore’ 20".
- E io a lui: "I’ mi son un che, quando
- Amor mi spira, noto, e a quel modo
- ch’e’ ditta dentro vo significando 21".
- “O frate, issa 22 vegg’io”, diss’elli, “il nodo
- che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
- di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo 23!
- Io veggio ben come le vostre penne 24
- di retro al dittator sen vanno strette,
- che de le nostre certo non avvenne;
- e qual più a gradire oltre si mette,
- non vede più da l’uno a l’altro stilo 25";
- e, quasi contentato, si tacette.
- Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
- alcuna volta in aere fanno schiera,
- poi volan più a fretta e vanno in filo,
- così tutta la gente che lì era,
- volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
- e per magrezza e per voler 26 leggera.
- E come l’uom che di trottare è lasso,
- lascia andar li compagni, e sì passeggia
- fin che si sfoghi l’affollar del casso 27,
- sì lasciò trapassar la santa greggia
- Forese, e dietro meco sen veniva,
- dicendo: "Quando fia ch’io ti riveggia?".
- "Non so", rispuos’io lui, "quant’io mi viva;
- ma già non fïa il tornar mio tantosto,
- ch’io non sia col voler prima a la riva 28;
- però che ’l loco u’ fui a viver posto,
- di giorno in giorno più di ben si spolpa,
- e a trista ruina par disposto".
- “Or va”, diss’el; “che quei 29 che più n’ ha colpa,
- vegg’ïo a coda d’una bestia tratto
- inver’ la valle ove mai non si scolpa.
- La bestia ad ogne passo va più ratto,
- crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
- e lascia il corpo vilmente disfatto 30.
- Non hanno molto a volger quelle ruote 31",
- e drizzò li occhi al ciel, “che ti fia chiaro
- ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.
- Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
- in questo regno, sì ch’io perdo troppo
- venendo teco sì a paro a paro 32”.
- Qual esce alcuna volta di gualoppo
- lo cavalier di schiera che cavalchi,
- e va per farsi onor del primo intoppo,
- tal si partì da noi con maggior valchi;
- e io rimasi in via con esso i due
- che fuor del mondo sì gran marescalchi 33.
- E quando innanzi a noi intrato fue,
- che li occhi miei si fero a lui seguaci,
- come la mente a le parole sue 34,
- parvermi i rami gravidi e vivaci
- d’un altro pomo, e non molto lontani
- per esser pur allora vòlto in laci 35.
- Vidi gente sott’esso alzar le mani
- e gridar non so che verso le fronde,
- quasi bramosi fantolini e vani 36
- che pregano, e ’l pregato non risponde,
- ma, per fare esser ben la voglia acuta,
- tien alto lor disio e nol nasconde.
- Poi si partì sì come ricreduta;
- e noi venimmo al grande arbore adesso,
- che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
- “Trapassate oltre sanza farvi presso:
- legno è più sù 37 che fu morso da Eva,
- e questa pianta si levò da esso”.
- Sì tra le frasche non so chi diceva;
- per che Virgilio e Stazio e io, ristretti 38,
- oltre andavam dal lato che si leva.
- “Ricordivi”, dicea, “d’i maladetti
- nei nuvoli formati 39, che, satolli,
- Tesëo combatter co’ doppi petti 40;
- e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
- per che no i volle Gedeon compagni,
- quando inver’ Madïan discese i colli 41".
- Sì accostati a l'un d'i due vivagni
- passammo, udendo colpe de la gola
- seguite già da miseri guadagni.
- Poi, rallargati per la strada sola,
- ben mille passi e più ci portar oltre,
- contemplando ciascun sanza parola.
- "Che andate pensando sì voi sol tre?",
- sùbita voce disse; ond’io mi scossi
- come fan bestie spaventate e poltre 42.
- Drizzai la testa per veder chi fossi;
- e già mai non si videro in fornace
- vetri o metalli sì lucenti e rossi,
- com’io vidi un 43 che dicea: "S’a voi piace
- montare in sù, qui si convien dar volta;
- quinci si va chi vuole andar per pace".
- L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
- per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
- com’om che va secondo ch’elli ascolta.
- E quale, annunziatrice de li albori,
- l’aura di maggio movesi e olezza,
- tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;
- tal mi senti’ un vento 44 dar per mezza
- la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
- che fé sentir d’ambrosïa 45 l’orezza.
- E senti’ dir: "Beati cui alluma
- tanto di grazia, che l’amor del gusto
- nel petto lor troppo disir non fuma,
- esurïendo sempre quanto è giusto! 46".
- Né il conversare né il camminare si
- rallentavano a vicenda, ma parlando andavamo spediti,
- come una nave spinta dal vento;
- e gli spiriti, che sembravano morte due volte,
- provavano ammirazione per me con gli occhi
- infossati, accortesi che ero vivo.
- ed io, continuando a parlare, dissi:
- “Quell’anima sale in maniera più lenta
- di quanto dovrebbe fare, per un altro motivo.
- Ma dimmi, se tu sai, dove si trova Piccarda,
- e dimmi se io posso vedere tra queste anime
- qualcuna che sia degna di nota”.
- “Mia sorella, che non so dire se fosse più
- bella o buona, già trionfa lieta in Paradiso,
- felice di possedere la sua corona”.
- Così disse prima: e poi: “Qui serve fare
- i nomi delle persone, dato che muta molto
- il nostro aspetto per il digiuno.
- Questi” e lo mostrò con il dito, “è Bonagiunta,
- Bonagiunta da Lucca; e quel viso
- dietro di lui squamato peggio degli altri
- è colui che ebbe tra le sue braccia la Santa
- Sede: fu di Tours, e purga con il digiuno
- le anguille di Bolsena e la vernaccia”.
- Mi fece il nome di molti altri spiriti;
- e di essere nominati sembravano tutti
- contenti, così che non vidi nessuno irritato.
- Vidi che per la fame masticava a vuoto
- Ubaldino della Pila e il vescovo Bonifacio
- che con il suo bastone guidò molte genti.
- Vidi il messer Marchese, che bevve già molto
- a Forlì con meno ristrettezza rispetto a qui,
- e che fu tale, che mai fu sazio.
- Ma come fa chi guarda e poi preferisce
- una persona rispetto ad un’altra, così io feci
- con quello di Lucca, che pareva aver più cose da dirmi.
- egli mormorava, e non so che “Gentucca”
- sentivo dire sulle sue labbra,
- dove lui percepiva di più il castigo che li consuma così.
- “O anima” dissi “che sembri così desiderosa
- di parlare con me, fai in modo che ti intenda,
- ed entrambi saremo soddisfatti”.
- “è nata una donna, è ancora una fanciulla”,
- cominciò, “che ti farà apprezzare Lucca,
- nonostante tutto quello che si dice.
- Tu te ne andrai con questa predizione:
- se con le mie parole ti è sorto un dubbio,
- i fatti reali ti chiariranno meglio quanto detto.
- Ma dimmi se io vedo qui colui che iniziò
- a scrivere le nuove rime, cominciando:
- Donne ch’avete intelletto d’amore”.
- Ed io a lui: “Io sono uno che, quando
- Amore mi ispira, prendo nota, e, nel modo
- in cui lui detta interiormente, io mi esprimo”.
- “O fratello, ora intendo” disse “il punto
- che bloccò il Notaro, Guittone ed io
- al di qua del dolce stil novo che ora sento”.
- Io intendo bene come il vostro scrivere
- segua fedelmente il dettato di Amore,
- così come invece non avvenne per il nostro;
- e chi cerca di andare ancora oltre, non nota
- più differenze tra uno stile e l’altro”.
- e, soddisfatto di quanto detto, tacque.
- Come gli uccelli che svernano lungo il Nilo
- a volte volano insieme nell’aria,
- poi volano più veloci, uno dietro l’altro,
- così le anime che si trovavano in quel posto,
- voltando il viso da me, accelerarono il passo,
- leggere sia per la magrezza sia per il desiderio.
- E come l’uomo che è stanco di correre,
- lascia andare i compagni e così cammina,
- fino a che non si è calmato il respiro,
- così Forese lasciò passare avanti la santa
- schiera, e dietro a me se ne veniva.
- dicendo: “Quando passerà prima che io ti riveda?”.
- “Non so” gli risposi, “quanto ancora vivrò;
- ma non sarà tanto rapido quando
- il mio desiderio di tornare nuovamente qui;
- perchè il luogo in cui vivo, Firenze,
- ogni giorno di più si spoglia del bene,
- e sembra predisposto ad un triste rovina”.
- “Ora vai” disse, “che colui che ha colpa maggiore
- io lo vedo trascinato dalla coda
- di una bestia nella valle infernale dove non esiste perdono.
- La bestia, ad ogni passo, è più veloce,
- cresce sempre più, fino a che lo uccide,
- e lascia il suo corpo del tutto sfigurato.
- E non passerà molto tempo”,
- ed alzò gli occhi al cielo, “che ti sarà chiaro
- ciò che ora non posso dire in maniera aperta.
- Tu resta indietro ora, poiché il tempo
- è prezioso qui, ed io ne perdo troppo
- venendo con te passo a passo”.
- Come a volte un cavaliere esce dalla schiera
- al galoppo del suo cavallo
- per avere l’onore del primo scontro,
- così si allontanò da noi Forese a passi ampi;
- ed io rimasi sulla via con due poeti
- che furono grandi maestri del mondo.
- E quando Forese si allontanò tanto da noi
- che i miei occhi avevano difficoltà a seguirlo,
- così come la mia mente le sue parole,
- mi apparvero i rami carichi e ricchi di foglie
- di un altro albero, e non molto lontano,
- benché non l’avessi ancora scorto di là.
- Vidi sotto l’albero anime alzare le mani
- e gridare non so cosa verso le fronde.
- quasi fanciulli desiderosi e insoddisfatti
- che pregano, e colui che è pregato
- non risponde, ma, per aumentare il desiderio,
- tiene in alto e ben in vista ciò che essi chiedono.
- Poi la gente si allontanò quasi disillusa,
- e noi giungemmo al grande albero,
- che rifiuta tante lacrime e tante preghiere.
- “Passate oltre senza avvicinarvi:
- più in alto c’è un albero da cui colse Eva
- il frutto, e questo qui nacque dall’altro”.
- Così tra le fronde non so chi stesse parlando:
- per questo Virgilio, Stazio ed io, vicini,
- proseguimmo oltre lungo la pendice del monte.
- “Ricordatevi” diceva “dei Centauri maledetti
- figli di Nefele che, ubriachi, combatterono
- contro Teseo con i corpi di uomini e cavalli;
- e degli Ebrei che furono ingordi nel bere,
- per questo Gedeone non li volle
- come compagni per combattere i Madianiti”.
- Così accostati a uno dei due orli
- della cornice proseguimmo, ascoltando colpe
- per il peccato seguite dai miseri castighi.
- Poi, distanziati sulla sola strada,
- proseguimmo per oltre mille passi,
- meditando ognuno in silenzio.
- “Che cosa state pensando voi tre così soli?”,
- disse una voce all’improvviso, per cui
- io mi scossi come fanno le bestie quando sono tranquille.
- Alzai la testa per vedere chi fosse;
- e mai si videro in una fornace
- metalli e vetri così lucenti e incandescenti,
- come io vidi uno che diceva: “Se voi volete
- salire, qui dovete svoltare; da questa parte
- deve andare chi vuole raggiungere la pace”.
- Il suo aspetto tanto luminoso non mi permise di vedere;
- così mi voltai verso le mie guide,
- come un cieco che va solo seguendo i suoni.
- E come, ambasciatore dell’alba,
- il vento di maggio si muove e profuma,
- tutto impregnato del profumo di erba e fiori;
- così sentii un dolce vento colpirmi la fronte,
- e riconobbi il muoversi dell’ala dell’angelo,
- che fece odorare l’aria di ambrosia.
- E sentii dire: “Beati quelli che sono
- illuminati da tanta grazia, che l’istinto
- della gola non crea un desiderio eccessivo,
- avendo fame solo di ciò che è giusto!”.
1 I primi due versi vogliono significare come Dante e Forese non diminuiscano nè l’incedere nè il conversare, ma che entrambe le attività vengono svolte ad una notevole rapidità, e senza interferire l’una con l’altra.
2 cose rimorte: l’aggettivo vuole sottolineare la notevole magrezza dei golosi che espiano il loro peccato.
3 Ella sen va sù forse più tarda | che non farebbe, per altrui cagione: l’anima a cui si stanno riferendo è Stazio, il quale preferisce camminare più lentamente solo per poter trascorrere del tempo insieme a Virgilio, nonostante la sua anima sarebbe pronta per elevarsi in maniera più veloce verso la sommità del monte.
4 Piccarda: Piccarda Donati, sorella di Forese, che il poeta incontrerà nel terzo canto del Paradiso.
5 nominar ciascun: in questa cornice, quella dei golosi incredibilmente smagriti dalla penitenza, è fondamentale nominare le anime affinché possano essere riconosciute nonostante il patimento a cui sono sottoposte.
6 Bonagiunta: Bonagiunta Orbicciani degli Overardi (1220-1290ca.), originario di Lucca e poeta del XIII secolo. Ponendosi sulla linea stilistica e poetica dei Siciliani e di Guittone, polemizzò con la nuova impostazione data alla lirica d’amore dagli “stilnovisti”, come si può vedere dal suo sonetto Voi ch’avete mutata la mainera, in risposta alla canzone di Guido Al cor gentil rempaira sempre amore.
7 trapunta: il viso è totalmente squamato e screpolato a causa delle ossa che segnano in maniera evidente la pelle.
8 vernaccia: Simone de Brie, che divenne papa Martino IV dal 1281 al 1285. Molti commentatori dell’epoca narrano le sue imprese a tavola (in particolare la passione per le anguille annegate nel vino “vernaccia”) e la sua propensione al bere.
9 un atto bruno: atto di scontentezza e di irritazione, che si traduce nell’oscuramento del volto.
10 Ubaldin dalla Pila: Ubaldino degli Ubaldini, di famiglia ghibellina, anch’egli celebre per la golosità e per essere il apdre dell’arcivescovo Ruggieri, condannato nel canto trentatreesimo dell’Inferno. Il suo nome appare anche in una novella del Sacchetti (CCV).
11 Bonifazio: Bonifazio Fieschi, nipote di papa Innocenzo IV, fu arcivescovo di Ravenna dal 1274 al 1295 e prelato molto gaudente.
12 Messer Marchese: Marchese degli Argugliosi, originario di Forlì, fu podestà di Faenza nel 1296 e morì nel 1316, godendo fama di gran bevitore.
13 Prima di introdurre il colloquio con Bonagiunta sul tema della poesia stilnovistica (vv. 34-63), Dante si concede questi piccoli ritratti (ricavati dall’anedottica del tempo) su alcune figure di golosi condannate alla penitenza.
14 Gentucca: nome proprio di una donna, che si ricollegerebbe quindi (pur senza una precisa ed esaustiva identificazione) con la profezia dei vv. 43-48; per altri commentatori sarebbe da leggere “gentuccia”, come se quindi a Bonagiunta spiacesse la compagnia degli altri penitenti, ch’egli evidentemente considera gente mediocre.
15 sentiv’io là, ov’el sentia la piaga | de la giustizia che sì li pilucca: Dante cioè sente mormorare qualcosa sulla bocca del goloso, tormentata dalla punizione di Dio.
16 benda: secondo gli ordinamenti comunali medievali, le donne sposate dovevano portare una benda nera che velasse capelli, tempie e mento.
17 la mia città: Lucca.
18 come ch’om la riprenda: al tempo di Dante, Lucca veniva considerata una città di barattieri (e tale è anche nel ventiduesimo canto dell’Inferno).
19 le cose vere: probabile allusione di Bonagiunta all’ospitalità goduta da Dante durante l’esilio presso una donna lucchese, la “Gentucca” del v. 37; come in altre situazioni (si pensi a Farinata nel decimo dell’Inferno o a Cacciaguida nel Paradiso) le anime dell’altro mondo sfruttano la loro capacità di vedere nel futuro per rivelare a Dante il suo destino.
20 La domanda di Bonagiunta è retorica, dato che egli ha riconosciuto Dante; la famosissima canzone dantesca della Vita Nova introduce alcuni temi capitali della poetica stilnovistica, come la “lode” di Beatrice, il rapporto tra amore e spiritualizzazione religiosa e l’identificazione del pubblico privilegiato delle donne accomunate dalla “gentilezza”.
21 Questa è la definizione di poetica del “dolce stilnovo” da parte di Dante. Il poeta spiega come la sua poesia sia ispirata direttamente da Amore e come lui, in qualità di scriba amoris (ovvero "scrivano e trascrittore dell’amore"), sia colui che prende nota in maniera precisa e puntuale di ciò che Amore gli dice e lo riporta per iscritto per divulgarlo ai fedeli d’amore.
22 issa: Dante sceglie apposta una voce lucchese (che significa “ora”) per caratterizzare anche linguisticamente il suo personaggio.
23 La risposta di Bonagiunta chiarisce il motivo per cui alcuni poeti tra cui lui stesso, Jacopo da Lentini e Guittone d’Arezzo non furono in grado di comprendere la rivoluzione poetica dello Stilnovo; essi infatti rimasero bloccati da un impedimento, da un “nodo”. In gioco è la questione della concezione d’amore, che interpreta da un lato il sentimento come un motivo sensuale dell’attività letteraria (l’amore-passione) e dall’altro come la manifestazione di un’esperienza trascendente che deriva direttamente da Dio e guida il soggetto sulla strada della salvezza (l’amore-virtù).
24 le vostre penne: metonimia per cui si indica lo strumento con cui si scrive al posto dell’attività di scrittura letteraria.
25 e qual più a gradire oltre si mette, | non vede più da l’uno a l’altro stilo: ci sono alcuni poeti che non si rendono conto della differenza tra i due stili, e che interpretano quindi il “nodo” del v. 55 solo come vicinanza ed aderenza al dettato d’amore (e quindi come fatto di ispirazione e non di vera concezione dell’amore).
26 voler: ovvero il desiderio di espiazione e di purificazione.
27 casso: “petto”.
28 ch’io non sia col voler prima a la riva: Dante non si augura tanto di morire nel tempo in cui è ambientato il suo viaggio ultraterreno (all’incirca la primavera del 1300), quanto piuttosto proietta su questa circostanza della narrazione la situazione complessa del momento in cui scrive, e cioè la fine del primo decennio del 1300, durante l’esilio e la peregrinazione per l’Italia.
29 quei: Il soggetto del discorso è Corso Donati (1250ca.-1308), fratello di Forese e Piccarda, capo della fazione nera dei Guelfi e responsabile, secondo Dante, della maggior parte delle disgrazie accadute a Firenze, cui allude il poeta ai vv. 79-81.
30 disfatto: lacerato in maniera vergognosa e orribile. Il trascinamento per mezzo di un cavallo è, nei codici medievali, una pena comune per i traditori (che nell’Inferno dantesco sono collocati nel punto più profondo del pozzo ultraterreno).
31 quelle ruote: il riferimento è al movimento dei cieli; un breve volgere di ruota coincide quindi con pochi anni.
32 paro a paro: la profezia allucinata della morte di Corso Donati (vv. 64-81) si chiude per una necessità particolarmente importante per le anime del Purgatorio: quella cioè di non perdere tempo, e di assicurarsi quanto prima possibile la beatitudine divina, come spiega la similitudine delle due terzine successive.
33 sì gran marescalchi: Virgilio e Stazio.
34 La terzina indica che, come la vista di Dante fa fatica a seguire Forese, così la sua mente non riesce a comprendere del tutto la profezia appena ascoltata.
35 L’albero appare agli occhi di Dante all’improvviso, perché finora egli ha parlato con Forese e ha fissato lo sguardo sul suo allontamento; l’albero, sotto al quale s’affollano le anime affamate, è generato da quello del Paradiso Terrestre.
36 quasi bramosi fantolini e vani: quasi come fossero bambini (“fantolini”) desiderosi e incapaci, in quanto sprovveduti ed inabili ad ottenere l’oggetto del loro desiderio.
37 più sù: nel Paradiso Terrestre, sulla cima del monte del Purgatorio.
38 ristretti: questo termine va riferito sia alla vicinanza fisica dei tre poeti, sia allo schiacciarsi dei viandanti alla parete del monte, per stare il più lontani possibile dall’albero ingannatore.
39 nei nuvoli formati: allusione al mito per cui i Centauri furono generati dall’unione di Issione e Nefele (dal greco Νεϕέλη, “nuvola”), cui Giove aveva dato l’immagine e le forme di Giunone.
40 Il primo esempio di golosità punita è di matrice mitologica: i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli (per questo con i “doppi petti”, v. 123), che, invitati alle nozze di Piritoo ed Ippodamia ed ubriacatisi, tentarono di violentare la sposa; Teseo li sterminò con l’aiuto dei Lapiti, il popolo della Tessaglia.
41 Secondo esempio di golosità punita, questa volta tratto dalla Bibbia (Giudici, VI 11 - VII 25): Gedeone, in lotta contro i Madianiti, escluse dal numero dei combattenti, per ordine di Dio, quei soldati che, giunti nei pressi di Arad, bevvero a piene mani, dimostrando poca virilità.
42 poltre: questo aggettivo può avere due significati: “giovani” oppure "tranquille". Nel primo caso dobbiamo intendere il verso nella forma seguente: “io mi spaventai come fanno le giovani puledre e le bestie giovani quando sentono un rumore sconosciuto o forte”; nel secondo caso invece si dovrà leggere: “così mi spaventai io così come una bestia quand’è tranquilla, che sobbalza per un rumore che non conosce e che non si aspetta”.
43 com’io divi un: si tratta dell’Angelo della Temperanza, dalla luminosità abbagliante, che deve cancellare dal volto di Dante una delle “P” che simboleggiano il suo eprcorso di espiazione.
44 un vento: qui prodotto dal movimento delle ali dell’angelo.
45 d’ambrosïa: l’ambrosia era il cibo immortale degli dei, che rendeva immortali gli uomini comuni; qui indica il profumo soave alla vista dell’angelo, ma può essere anche un’allusione per antitesi alla condizione dei golosi.
46 Il discorso dell’angelo è una parafrasi della quarta beatitudine evangelica che recita: “Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia perchè saranno saziati” (Matteo 5, 6), già ricordata nel ventiduesimo canto del Purgatorio (vv. 4-6). L’ultimo verso può essere inteso come l’indicazione di un appettito misurato ed equilibrato (“aver fame solo di ciò che non è eccessivo”) oppure come una sottolineatura del vero oggetto di cui bisogna aver fame, cioè la Giustizia (e quindi “aver fame di ciò che è giusto e vale di più”).