Introduzione
L’Ultimo canto di Saffo, composto da Giacomo Leopardi nel 1822, è una canzone che - come il Bruto Minore del 1821, in cui Leopardi narra del suicidio di Bruto dopo la battaglia di Filippi del 42 a.C. coem ribellione estrema alla restaurazione della tirannia - esprime il dramma della caduta delle illusioni dinanzi all’inesorabile legge della natura. L’Ultimo canto di Saffo si concentra infatti sul suicidio della poetessa Saffo (640 ca. - 570 ca. a.C.) mettendo in scena il dissidio interiore di una donna dall’animo nobile e dall’aspetto poco attraente che, esclusa dall’esperienza amorosa, rivendica il proprio diritto all’affetto contro un ordine naturale insensibile alla virtù 1.
L’Ultimo canto viene steso a Recanati nel maggio del 1822 ed inserito nei Canti sin dalla prima edizione del 1831.
Commento
L’Ultimo canto di Saffo segna la conclusione definitiva della fase del pessimismo storico e la presa di coscienza che l’infelicità non è frutto dell’evoluzione del pensiero razionale moderno, bensì una prerogativa dell’essere umano in quanto tale. In quest’ottica la lirica risulta uno dei primi tentativi del poeta in direzione della poesia sentimentale, che sostituirà la poesia di immaginazione, divenuta impossibile dopo la consapevolezza dell’intangibilità e precarietà delle illusioni umane (secondo una riflessione che verrà sviluppata anche nelle Zibaldone o nelle Operette morali).
La canzone è articolata in quattro strofe in cui si articolano i turbamenti di Saffo in un crescendo di tensione drammatica. Leopardi segue la poetessa nel progressivo passaggio dal riconoscimento delle meraviglie della natura a quello dell’incapacità di fruirne liberamente, fino alla constatazione che di tali bellezze la natura è stata con lei avara. Si passa poi, in uno snodo fondamentale del ragionamento, al riconoscimento della crudeltà della legge naturale e del destino, che non si accanisce su lei sola, ma che accomuna tutti gli uomini, fino all’amara considerazione conclusiva che l’unica possibilità di ribellione rimasta è la morte.
Questo dualismo interiore tra l’ineluttabilità del destino umano e l’irriducibile vitalità della passione si riflette anche sul piano stilistico. Il lessico, evocativamente, è ora aspro, ora alla ricerca di una dilatazione spaziale e temporale, ora fortemente melodrammatico. La sintassi, caratterizzata da esclamazioni, interrogative ed inversioni dell’ordine naturale del discorso, segue l’andamento drammatico della scena.
Il testo, intessuto di puntuali rimandi classici, si ricollega, proprio attraverso il topos letterario dell’amore infelici, ai modelli del romanticismo europeo di quegli anni: dalla lettera di Saffo all’amato Faone delle Eroidi di Ovidio si arriva infatti alle opere di Madame de Staël (Anne-Louise Germaine Necker, 1766-1817), quali ad esempio la lettera posta in incipit del romanzo Delphine (1802) o la protagonista principale di Corinna, o l’Italia (1807).
Metro: canzone di quattro strofe di diciotto endecasillabi ciascuna, in cui il penultimo verso è un settenario ed è sempre in rima con l’ultimo verso.
- Placida notte, e verecondo raggio
- della cadente luna; e tu, che spunti
- fra la tacita selva in su la rupe,
- nunzio del giorno 2; oh dilettose e care,
- mentre ignote mi fur l’Erinni 3 e il Fato,
- sembianze agli occhi miei; giá non arride
- spettacol molle ai disperati affetti.
- Noi l’insueto allor gaudio ravviva
- quando per l’etra liquido 4 si volve
- e per li campi trepidanti il flutto
- polveroso de’ Noti 5, e quando il carro,
- grave carro di Giove 6, a noi sul capo
- tonando, il tenebroso aere divide.
- Noi per le balze e le profonde valli
- natar giova 7 tra’ nembi, e noi la vasta
- fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
- fiume alla dubbia sponda
- il suono e la vittrice ira dell’onda.
- Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
- sei tu, rorida terra. Ahi! di codesta
- infinita beltá parte nessuna
- alla misera Saffo i numi e l’empia
- sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
- vile, o Natura, e grave ospite addetta,
- e dispregiata amante, alle vezzose
- tue forme il core e le pupille invano
- supplichevole intendo 8. A me non ride
- l’aprico margo, e dall’eterea porta
- il mattutino albor; me non il canto
- de’ colorati augelli, e non de’ faggi
- il murmure saluta 9; e dove all’ombra
- degl’inchinati salici dispiega
- candido rivo il puro seno, al mio
- lubrico 10 piè le flessuose linfe
- disdegnando sottragge,
- e preme in fuga l’odorate spiagge.
- Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso
- macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
- il ciel mi fosse e di fortuna 11 il volto?
- In che peccai bambina, allor che ignara
- di misfatto è la vita, onde poi scemo
- di giovanezza, e disfiorato, al fuso
- dell’indomita Parca 12 si volvesse
- il ferrigno mio stame? Incaute voci
- spande il tuo labbro: i destinati eventi
- move arcano consiglio. Arcano è tutto,
- fuor che il nostro dolor. Negletta prole
- nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
- de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
- de’ piú verd’anni! Alle sembianze il Padre 13,
- alle amene sembianze, eterno regno
- die’ nelle genti; e per virili imprese,
- per dotta lira o canto,
- virtú non luce in disadorno ammanto.
- Morremo 14. Il velo indegno a terra sparto,
- rifuggirá l’ignudo animo a Dite 15,
- e il crudo fallo emenderá del cieco
- dispensator de’ casi. E tu 16, cui lungo
- amore indarno, e lunga fede, e vano
- d’implacato desio furor mi strinse,
- vivi felice, se felice in terra
- visse nato mortal. Me non asperse
- del soave licor del doglio avaro
- Giove, poi che perîr gl’inganni e il sogno
- della mia fanciullezza. Ogni piú lieto
- giorno di nostra etá primo s’invola 17.
- Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
- della gelida morte. Ecco di tante
- sperate palme e dilettosi errori,
- il Tartaro 18m’avanza; e il prode ingegno
- han la tenaria diva 19,
- e l’atra notte, e la silente riva.
- Notte tranquilla, e raggio puro e limpido
- della luna che sta tramontando; e tu, che spunti
- in mezzo al bosco silenzioso sulla montagna,
- annunciatore del giorno; oh piacevoli e care
- foste ai miei occhi quando mi erano ancora
- sconosciute le pene e il destino; il dolce spettacolo
- non rallegra gli animi infelici.
- In noi si ravviva una gioia insolita
- quando turbina attraverso l’aria limpida
- e per i campi sconvolti i venti che sollevano
- polvere, e quando il carro,
- il pesante carro di Giove, ci tuona sul capo
- e squarcia l’aria tenebrosa.
- A noi per le montagne e le profonde valli
- piace nuotar tra le nuvole, e ci piace la disordinata
- fuga delle greggi spaventate, e il fragore
- e la violenza vittoriosa dell’onda di un fiume
- in piena contro la pericolosa sponda.
- Il tuo manto è bello, o cielo divino, e bella
- sei tu, terra rugiadosa. Ahi! A questa
- infinita bellezza non fecero prender parte
- alla povera Saffo gli dei e la vergognosa sorte.
- O Natura, vile e fastidiosa ospite addetta
- ai tuoi superbi regni,
- e disprezzata amante, alle tue aggraziate
- forme inutilmente rivolgo, supplice, il cuore
- e gli occhi. A me non sorride
- il luogo soleggiato, e dalla porta del cielo
- il chiarore mattutino; non mi saluta il canto
- degli uccelli pieni di colori, né
- il mormorio dei faggli; e nei luoghi in cui
- all’ombra dei salici incurvati si dispiega
- il chiaro alveo del limpido ruscello, al mio
- piede malfermo le acque flessuose
- sottrae serpeggiando,
- e colpisce fuggendo le rive profumate.
- Di quale sbaglio, di quale terribile colpa mi sono
- macchiata prima della nascita, per far sì che
- così sfavorevoli mi fossero il cielo e il volto
- della fortuna? In cosa peccai da bambina,
- quando la vita ancora è ignara di cosa sia il male,
- in modo che poi privo di giovinezza e sfiorito,
- al fuso dell’implacabile Parca si avvolgesse
- il mio oscuro filo della vita? Inspiegabili domande
- pronuncia la tua bocca: una decisione imperscrutabile
- dirige gli eventi predestinati. Tutto è imperscrutabile,
- eccetto il nostro dolore. Stirpe disprezzata
- siamo nati per piangere, e la ragione del dolore è
- posta sulle ginocchia degli dei. Oh desideri,
- oh speranze degli anni più verdi! Giove diede
- all’aspetto, al bell’aspetto, il dominio eterno
- sulla gente; per quanto si compiano imprese
- coraggiose, si abbia capacità poetica o canora,
- la virtù non splende su un corpo deforme.
- Moriremo. Gettato a terra il corpo spregevole,
- l’anima liberata fuggirà verso Dite,
- e correggerà il crudele errore del cieco
- dispensatore delle sorti. E tu, a cui mi legarono
- lungo amore, e lunga fedeltà,
- e inutile passione mai placata,
- vivi felice, se mai visse felice sulla terra
- un mortale. Avaro Giove non versò su di me
- il dolce liquore della felicità,
- dopo che svanirono le illusioni e i sogni
- della mia fanciullezza. I giorni più lieti
- della nostra vita per primi svaniscono.
- Subentra la malattia, la vecchiaia, e la minaccia
- della gelida morte. Ecco di tanti sperati
- premi e piacevoli illusioni,
- mi rimane solo il Tartaro; e già posseggono
- il mio alto ingegno Proserpina,
- e la buia notte, e la silenziosa riva.
1 Nel suo Annuncio delle Canzoni del 1824, Leopardi spiega esplicitamente che quello di Saffo vuole “rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane” (in G. Leopardi, Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1993, p. 328.).
2 nunzio del giorno: si tratta del pianeta Venere, o meglio della stella Espero con esso identificata, che era considerata l’annunciatrice della notte. Si noti come l’apertura del testo umanizzi la natura (la notte è “placida”, il raggio lunare “verencondo”, la selva è “tacita”), come se Saffo cercasse una sorta di conforto umano nella realtà circostante. L’apertura del testo ricorda quella della Sera del dì di festa, ma il tema della notte attraversa tutta la cultura romantica, dalla Bassviliana di Monti alle traduzioni di Cesarotti (i Canti di Selma), dal Werther di Goethe fino alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo.
3 Erinni: le Erinni, o Furie, sono figure mitologiche che nel pantheon greco-romano sono le punitrici di un delitto. In Leopardi simboleggiano piuttosto i tormenti della passione amorosa e, su più larga scala, la sofferenza e il dolore insiti nell’animo umano.
4 etra liquido: l’immagine dell’aria limpida e splendente (“etra liquido”) rimanda all’Eneide di Virgilio (VII, 65), ai Carmina di Orazio (II, 20, 1-2), alla Gerusalemme Liberata di Tasso (IX, 62) alla Notte di Parini.
5 Noti: il Noto è un vento che soffia da sud.
6 Giove: è Giove a scagliare i fulmini e a provocare il rombo del tuono solcando il cielo col suo carro, che in questo senso è “grave”. Il rapporto tra i tormenti personali e l’esplosione degli elementi naturali rimanda al clima del Romanticismo.
7 giova: “piace”, latinismo da iuvo, iuvas, iutum, iuvare. In tal senso, il verbo regge un complemento oggetto (v. 15: “noi”), come in latino.
8 intendo: Qui, attraverso la figura retorica dello zeugma, un predicato verbale (“intendo”) regge due complementi (“core” e “pupille”), pur riferendosi per significato logico solo ad uno di essi.
9 Si noti in questo passo l’anafora del pronome personale “me” e della negazione “non”, a ribadire che Saffo è esclusa senza speranza dal mondo e dalla felicità.
10 lubrico: e cioè “malfermo”, con un latinismo dall’aggettivo lubricus, -a, -um. La frequenza di termini colti e latineggianti contribuisce ad elevare il livello stilistico dell’Ultimo canto, dando alla voce di Saffo un tono di tragica drammaticità.
11 fortuna: anche la sorte, come la natura ai vv. 1-4, è personificata.
12 Parca: secondo la mitologia greca le tre Parche erano le donne che filavano, tessevano e poi recidevano il filo della vita. Secondo la critica, una fonte di questo passo sarebbe un verso del proemio dell’Eneide (v. 22: “[...] sic volvere Parcas”).
13 Padre: si intende qui Giove, ovvero il padre degli dei.
14 Morremo: l’ultima strofe dell’Ultimo canto si apre con una frase sentenziosa, che preannuncia il suicidio di Saffo e non lascia alcuna speranza di felicità. Dietro a questa scelta si allude anche ad un importante modello letterario, che dà una chiave di lettura delle sofferenze amorose della protagonista: quello della Didone virgiliana (Eneide, IV, 659-660: “[...] «Moriemur inultae | sed moriamur» ait, «sic, sic iuvat ire sub umbras»”; “Moriremo invendicate, ma moriamo” disse “così, così è meglio scendere tra le ombre).
15 Dite: dio degli inferi romano, noto anche come Plutone ed equivalente di Ade nella mitologia greca.
16 tu: Saffo si riferisce a Faone, personaggio mitologico di professione traghettatore, ringiovanito e reso bellissimo grazie a un unguento donatogli da Afrodite, che secondo la leggenda la poetessa Saffo avrebbe amato senza esserne corrisposta.
17 Questa “massima” filosofica per cui il ricordo delle cose belle svanisce per primo rimanda a un passo delle Georgiche di Virgilio (Georgiche, III, vv. 66-68).
18 Tartaro: il Tartaro è una parte del regno degli Inferi, e qui indica, genericamente, la certezza della morte che attende Saffo.
19 tenaria diva: cioè Proserpina, sposa di Dite. Tenaria perché a Capo Tenaro (o Capo Matapan), nel Peloponneso, si riteneva vi fosse una delle porte d’accesso agli Inferi.