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La poetica di Montale negli "Ossi di seppia"

Introduzione Sperimentalismo e tradizione

L’importanza di Eugenio Montale per la storia letteraria novecentesca è probabilmente senza pari, considerando i risultati altissimi dei lavori poetici e l’intensa carriera di intellettuale e pubblicista. Ciò è sicuramente dovuto alla raffinatezza dello stile, alla forza della sua visione del mondo che pervade ogni zona della sua produzione e alla tenacia militante con cui il poeta affrontò il lavoro culturale. La grande fama di Montale ha però un’altra radice, spesso più in ombra, ma egualmente determinante: fin dagli esordi, Montale seppe muoversi negli ambienti intellettuali con estrema dimestichezza. In ogni fase della sua lunga carriera il poeta ha dimostrato infatti una non comune capacità di amministrare socialmente il proprio “talento” poetico: potremmo definire Montale come un abile stratega di se stesso, sottolineando così l’abilità del poeta nel comprendere attivamente il proprio contesto intellettuale. Questo aspetto diventa lampante negli anni Venti, con l’uscita di alcuni componimenti in rivista (e altri interventi di critica letteraria su Sbarbaro e Cecchi), e poi con gli Ossi di seppia, pubblicati nel 1925 a Torino da Piero Gobetti, importante intellettuale antifascista.

È interessante allora notare come, ancor prima dell’uscita del libro, Montale si sia legato all’ambiente culturale torinese: collabora con le riviste letterarie vicine all’ambiente gobettiano, come «Primo Tempo» e soprattutto «Il Baretti»; conosce i maggiori critici e letterati che ruotano intorno a questa specie di scuola di pensiero, come Emilio Cecchi, Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti. L’orientamento comune è quello in favore di una letteratura sul valore della classicità e della tradizione, che sia però stimolo e modello di resistenza etica, in un frangente storico in cui il regime fascista minacciava sempre più le libertà fondamentali. Da qui il rifiuto della sterile nostalgia per il passato - anche sul piano letterario - e, contemporaneamente, il rigetto dell’estremismo delle avanguardie storiche (come il Futurismo, ormai istituzionalizzatosi come “scuola”), privilegiando un decoro formale che fosse anche una scelta di vita, personale e civile. Oltre a questa spiccata tensione morale, la “scuola” di Gobetti era intenzionata a superare il provincialismo radicato ed endemico della cultura italiana, aprendosi alle più aggiornate tendenze europee (determinante, anche per la futura poesia di Montale, è allora la conoscenza della grande letteratura europea da Proust a Kafka, passando per Musil e per Italo Svevo, altro autore della “crisi delle certezze” novecentesca).

Il 1925 è allora un anno cruciale per Montale: oltre alla pubblicazione degli Ossi, Montale firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, al cui pensiero filosofico e critico si richiama - anche se in modo originale e poco ortodosso - l’intero gruppo dei letterati vicini a Gobetti. Sempre nel 1925 Montale pubblica sul «Baretti» Stile e tradizione, un breve saggio in cui il pensiero gobettiano viene rielaborato in modo personale e acuto, esposto con la “sprezzatura” tutta tipica del poeta, che farà della pulizia del pensiero la cifra distintiva della sua vita artistica. Nell’articolo è infatti abbastanza netta la presa di distanza dai modelli poetici più eminenti (nell’ordine: Carducci, D’Annunzio e Pascoli), alle cui “bacature” si contrappone lo “stile” (e cioè l’attenzione scrupolosa alla forma poetica e alla sua originalità personale) e il “buon costume” (ovvero, la sostanza etico-morale con cui connotare il contenuto della propria poesia):

Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume. Se fu detto che il genio è una lunga pazienza, noi vorremmo aggiungere ch’esso è ancora coscienza e onestà 1.

È questa un’ottima sintesi di quella che è la poetica degli Ossi di seppia, che si rifanno all’ideale della “salvezza nello stile” formulato da Piero Gobetti, e una proficua linea di lettura per alcuni dei testi più celebri della raccolta (tra gli altri I limoni, Meriggiare pallido e assorto, Non chiederci la parola). Tuttavia, lo spunto iniziale della riflessione montaliana è anche d’indole pratica, e strettamente legata al proprio gruppo culturale di riferimento: nella prima edizione degli Ossi, molte poesie sono dedicate esplicitamente a critici e intellettuali amici, come appunto Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Gli stessi dedicatari saranno poi recensori degli Ossi di seppia, e a loro volta verranno recensiti da Montale nel vivace circuito di riviste che condividevano collaboratori e orientamenti culturali. Pietro Cataldi, un importante studioso montaliano, ha appunto rilevato “l’esistenza di un contesto filomontaliano ben definito fin dagli esordi” 2; e si può dunque ipotizzare una specie di comunanza di prospettive, sia formali sia contenutistiche, tra la poesia di Montale e il gruppo di lettori e critici cui essa è inizialmente destinata.

In tal senso gli Ossi di seppia si presentano come una raccolta caratterizzata da un’originale mescolanza di sperimentalismo e tradizione. Con un occhio al Simbolismo francese (Baudelaire, Mallarmé, Valery), Montale combina il meglio dei modelli italiani, dal binomio Pascoli-D’Annunzio (pure censurati in Stile e tradizione...) al crepuscolarismo di Corazzini e Gozzano, dalla poesia “ligure” di Camillo Sbarbaro (uno dei primi punti di riferimento per l’autore) fino al linguaggio dei libretti d’opera (che Montale conosceva direttamente, avendo studiato canto lirico con buoni risultati). Nonostante l’ampiezza dei modelli e la disponibilità sperimentale, gli Ossi di seppia rimangono un libro compatto, unificato dall’interno da una spinta etica coerente: dal crepuscolarismo stinto di Corno inglese al modernismo “esistenziale” di Arsenio, la tensione etico-conoscitiva che innerva lo stile - la stessa che si interroga sulla “parola” che può definire il nostro stare al mondo - rimane la stessa. Il rigore ideologico del primo Montale, combinato alla capacità di dialogare attivamente col proprio pubblico di riferimento, permette una felice sintesi dei modelli e la creazione di uno stile poetico originale ed efficace (e dall’influsso determinante su buona parte della poesia italiana del Novecento, al pari forse solo di Ungaretti). Montale combina allora “talento individuale” e “tradizione”, intesa non come “un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini – ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti espressi dalla nostra terra” 3. E le successive grandi raccolte (come Le occasioni e La bufera e altro) confermeranno lo status dell’autore tra i più grandi poeti europei dell'ultimo secolo.

 

Bibliografia essenziale:

- P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991.
- G. Contini, Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi, 1974 (2002).
- P. V. Mengaldo, Da D'Annunzio a Montale, in La tradizione del novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, pp. 15-115.
- E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d'Amely, Milano, Mondadori, 2003.

1 E. Montale, Stile e tradizione, «Il Baretti», anno II, n. 1, 15 gennaio 1925, ora in Auto da fé, Milano, Il Saggiatore, 1966, p.19.

2 P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991, p. 67.

3 E. Montale, Stile e tradizione, cit., p. 17.